L’annuncio dei premi 2023 è senz’altro un brutto risveglio. Abbondano le motivazioni che spiegano la stangata, mancano le soluzioni
Ho fatto un sogno. Alain Berset entra nella sala stampa di Palazzo federale, si sbottona la giacca e prende il suo posto. Il portavoce Simonazzi è pronto per le solite premesse, ma viene bloccato dal ‘ministro’ della Sanità: oggi niente introduzione. "Gentili signore, egregi signori, sono qui per comunicarvi che il Consiglio federale ha raggiunto un accordo con gli assicuratori malattia – annuncia Berset –. Le casse hanno deciso di procedere a un importante scioglimento delle riserve in eccedenza, anziché destinarle alla speculazione sui mercati finanziari: ciò renderà possibile compensare interamente il prospettato aumento dei premi per il 2023". I giornalisti restano attoniti. Qualcuno dalle ultime file riesce a porre una domanda: come si spiega questa decisione? A rispondere sono i presidenti delle due principali organizzazioni mantello delle casse malati, il ‘senatore’ Josef Dittli di curafutura e il consigliere nazionale Martin Landolt di santésuisse: "Si tratta di un gesto patriottico, resosi indispensabile viste le difficili circostanze che stiamo attraversando; un contesto che sta mettendo in serie difficoltà tante famiglie", osserva Dittli. "Un gesto – aggiunge Landolt – totalmente compatibile con la nostra mission (nel sogno lo dice pure in inglese), che è quella di tutelare la salute dei nostri assicurati".
No, le cose non stanno così. La conferenza stampa a Berna, quella vera, è senz’altro un brutto risveglio: a livello nazionale l’aumento medio dei premi l’anno prossimo sarà del 6,6%, in Ticino addirittura del 9,2%. Le motivazioni sono diverse: da un lato gli strascichi finanziari della pandemia. Dall’altro questioni strutturali che andrebbero, una volta per tutte, affrontate dalla politica federale: l’incremento dei costi legato al progressivo invecchiamento della popolazione, la mancata entrata in vigore del progetto Efas per la ripartizione delle spese delle cure ambulatoriali, il sovraconsumo di prestazioni e la sovrabbondanza di offerta sanitaria che si alimentano reciprocamente.
C’è però un grosso problema che sta a monte. Lo ha spiegato bene a ‘laRegione’ pochi giorni fa il consigliere di Stato Raffaele De Rosa: il direttore del Dss ha parlato esplicitamente di un conflitto d’interessi nel modello del parlamento di milizia. "Il sistema non è più sostenibile, il lobbista partecipa e dibatte incassando pure il gettone di rappresentanza dalla cassa malati per cui lavora". Per De Rosa tali persone "non dovrebbero né votare né discutere su questa materia". Invece lo fanno.
È chiaro che le casse malati non sono l’unico caso in cui si manifesta tale conflitto, ma resta uno degli esempi più eclatanti. Il potere legislativo, d’altronde, non è altro che il terreno politico in cui si confrontano interessi contrapposti già presenti nella società civile; risulta evidente quanto, in un simile consesso, le ingerenze – le famose ‘lobby’– siano intrinseche al sistema.
Per ritrovare un’assemblea legislativa "pura" bisognerebbe forse viaggiare nel tempo fino all’Atene di Pericle. Ma anche lì, il diritto di voto riguardava soltanto i "cittadini". Personaggi che potevano dedicare il loro tempo alla politica dal momento in cui il loro sostentamento era garantito dalla proprietà della terra e dal lavoro degli schiavi.
Purtroppo l’ideale di un parlamento di milizia che legiferi nell’interesse collettivo della cittadinanza, più che un sogno, sembra essere oggi una vera e propria chimera.