Da Rossini al capolavoro verdiano, che debutta il 2 settembre. Sulla scena che prende forma, a colloquio con il regista (aspettando Donizetti...)
Sull’imballo c’è scritto ‘Chaise longue’; è appena stata scaricata e troverà il suo posto sul palcoscenico. È elemento provvisorio che poco fuori dal Lac attrae, se si entra dal retropalco; è una delle parti più o meno grandi della ‘Traviata’ che vanno via via diventando tutt’uno. In scena, di giovedì mattina, giorno di prove, ci sono un grande letto matrimoniale, uno scrittoio e poco altro. E grandi, luminose vetrate davanti alle quali, viene da pensare, si muoveranno il soprano greco Myrtò Papatanasiu (Violetta), Airam Hernández (Alfredo) e Giovanni Meoni (Giorgio Germont). Presto si uniranno Markus Poschner e l’Orchestra della Svizzera italiana, e così il Coro della Radiotelevisione svizzera e la compagnia Teatro Gioco Vita, al cui teatro d’ombre sono affidate le ‘memorie’ di Violetta (si veda in seguito); e poi decine di figuranti e quella squadra artistica e tecnica – qui potenziata per l’imponenza dell’allestimento – già al lavoro sul ‘Barbiere di Siviglia’, stagione 2018, il debutto dell’opera lirica al Lac.
La regia del capolavoro verdiano, così come fu per Rossini quattro anni fa, è di Carmelo Rifici. Ci attende in ‘modalità prove’ – un lungo tavolo, una luce dall’alto, la Sala Teatro nella semioscurità – quando mancano più o meno due settimane alla ‘prima’ di venerdì 2 settembre, ore 20, e poi domenica 4 (alle 15), e martedì 6 e giovedì 8 settembre di nuovo alle 20.
Carmelo Rifici: qual è lo stato d’animo? Il vostro, il suo in particolare?
Gli stati d’animo sono diversi come diverse sono le due opere. Abbiamo iniziato l’avventura nella lirica con Rossini, un sistema teatrale dalle dinamiche a me note, difficile da fare bene ma che un regista può cogliere. Per La traviata la situazione è più complessa, perché si tratta di un’opera che tutti conoscono e vi è un immaginario collettivo a essa collegato; si tratta dunque di comprendere come portare il pubblico a lasciare quell’immaginario per accogliere dell’altro, che scava all’interno dell’opera. E poi c’è la musica di Verdi, che a differenza di quella rossiniana chiede un’attenzione al particolare psicologico, analitico, e un rispetto quasi maniacale dei tempi musicali. Se in Rossini i tempi sono matematici – e il divertimento è proprio quello di stare nella matematica del tempo – in Verdi i tempi sono più ambigui. È assai più arduo entrarvi, ed entrarvi richiede una certa responsabilità.
Fino a quanto si è spinto per far dimenticare questo immaginario, a quanta parte d’immaginario il pubblico rinuncerà?
Io vorrei che non vi rinunciasse affatto. Mi auguro che possa essere sorpreso da alcune scelte, comunque mai provocatorie. La mia sarà una ‘Traviata’ piuttosto classica, perché è ciò che volevo fare, ma priva di quell’intenzione di portare il pubblico nell’atmosfera appassionata del postribolo, della prostituta malata. In questo caso, coloro i quali s’aspettassero tutto questo saranno inevitabilmente ‘spostati’. Per me Violetta è una vittima, io riprendo il concetto iniziale di Verdi, che all’epoca fu censurato, il suo voler raccontare la storia di una vittima, finalizzata a una critica feroce al perbenismo e all’ambiente conservatore in cui egli stesso viveva, riprendendo a sua volta la critica di Dumas.
Scenicamente, in quale modo Violetta torna vittima?
Ho cercato di spogliare quella parte fintamente festosa dell’opera, in luogo di un côté a tratti minaccioso nei confronti della protagonista: Violetta è minacciata da un contesto conservatore, che ha bisogno di lei, che necessita di qualcosa di malato per liberarsi di quel male, che necessita della sua morte perché tutto torni all’ordine. Myrtò (Papatanasiu, ndr) si trova molto a suo agio nell’interpretazione di una Violetta più pura, più candida, meno portata all’idea che la vita sia – come dice una parte della sua aria – semplicemente "folleggiare" (‘Sempre libera’, ndr). Per questa ‘Traviata’ abbiamo guardato alla parte in cui sia lei che Alfredo comprendono che la vita e l’amore hanno in sé qualcosa di più altero e misterioso. In quest’alterità, in questo mistero, abbiamo cercato di costruire lo spettacolo.
Nessun desiderio di trasportarlo ad altro tempo storico, a quello presente, o altre dimensioni con le quali alcune regie, confrontandosi con le opere, hanno ‘giocato’?
Devo dire che quello che ha funzionato nel ‘Barbiere di Siviglia’, e che funziona di solito quando io faccio l’opera, è rendere tutto un pochino più astratto, dare al pubblico una collocazione storica non così tradizionale, ma mai iper contemporanea o postmoderna. Anche in questo caso, quando si aprirà il sipario, ci si ritroverà in un contesto che ‘alluderà’ all’Ottocento, ma gli oggetti, il taglio dei vestiti, i particolari renderanno il tempo, a tratti, universale. Ci sono elementi che paiono arrivare dagli anni 50 affiancati ad abiti ottocenteschi, il tutto in una sorta di eleganza, almeno mi auguro sarà tale, capace di rendere la vicenda attuale ma mai contemporanea.
Lac
L’infanzia di Violetta (prove di regia)
E le ombre?
In questo caso, sono partito dalla ‘Lanterna magica’ di Ingmar Bergman. L’idea, e torno su quanto detto in precedenza a proposito della purezza, era quella di creare in determinati momenti dello spettacolo alcuni flashback evocativi di Violetta bambina, i suoi ricordi di un’infanzia già strana, già portata a un destino crudele. E in questa infanzia c’è un suo amore per i giochi d’ombra: appaiono in scena giocattolini, teatrini, dove gli uomini che giocano con lei già alludono agli sviluppi tragici della sua vita. L’ombra è sempre sorprendente: sai che è una cosa semplice, capace di renderti bambino in un attimo, ma resta comunque un’ombra, portatrice di un universo sempre un po’ pericoloso. Il viaggio che fa Violetta è quello di un’innocente che entra dentro un incubo, e l’incubo è la società che, come ogni società perbenista, ha bisogno di qualcuno che si sobbarchi il peccato.
In questo ampliare della figura di Violetta anche in ambiti onirici, com’è il suo rapporto con lei, e quale quello con Alfredo?
Si divertono, nei relativi duetti, a prestarsi allo sguardo interiore cui lo stesso Verdi apre. Ieri (mercoledì, ndr), provando nuovamente il primo atto, Myrtò mi ha detto: "Ci hai dato tutto in maniera così precisa che è impossibile dimenticarti quel che devi fare. È tutto molto naturale". In realtà non è cosa che abbia inventato io, è la musica di Verdi che fa da lente d’ingrandimento sull’anima, tanto che quest’amore altero e misterioso trascende quello esistente tra i due. È come se Verdi, attraverso la musica, individuasse una sorta di amore cosmico, non necessariamente buono di per sé, ma che comprende la relazione in divenire tra i due in questo mondo troppo corrotto, che tende a degradare tutto ciò che si eleva e fugge dalle maglie del quotidiano, per riportarlo all’interno. Con Alfredo ci riesce; con Violetta invece, in modo terribile, fa luce su quella società patriarcale e maschilista, perfettamente descritta, che vuole la donna vittima e colpevole. Violetta accetta questo destino, conscia del fatto che non esiste possibilità di scelta, conscia che l’uomo vuole che una donna venga punita per i danni di un’intera società. Non posso dire che ‘La traviata’ sia un’opera femminista, è ovvio, ma in essa è vivo uno sguardo attento, estremamente empatico, tant’è che Verdi, Violetta, la salva: l’ultima parola che la donna pronuncia è ‘gioia’, e il sacrificio diventa salvazione.
Tecnicamente parlando, e ci perdoni il riferimento sportivo, squadra che vince non si cambia…
La macchina è enorme e ha bisogno di un’organizzazione ferrea. Tra qualche giorno iniziano gli ‘assieme’, e le parti preparate in maniera separata vengono unite, e io potrò soltanto aiutare Marcus Poschner. Affinché questo possa succedere, la macchina ha iniziato a lavorare molto tempo prima. Ci sono state e continuano a esserci importanti riunioni tecniche e di settore. La cosa interessante, nell’opera precedente e in questa, è quanto le squadre del Lac siano all’altezza del compito, una qualità riconosciuta dagli stessi cantanti. Non è una questione di bravura: noi non siamo un teatro di repertorio, che porta in scena un’opera ogni tre giorni, dunque dobbiamo essere più pronti e preparati degli altri. Non c’è ansia, c’è quella trepidazione che viene dal chiedersi se tutto funzionerà, e se al pubblico arriverà quel carico emotivo che ci si è immaginati.
Se non un’opera ogni tre giorni, è possibile che l’ambito operistico del Lac si espanda?
Non nei prossimi anni. Il business plan parla di un’opera ogni due anni, per i prossimi quattro anni. L’opera comporta oneri importanti. Grazie a Michel Gagnon, molto attento a questa parte del lavoro, riusciamo a mettere in cantiere almeno tre opere.
La prossima?
Il prossimo anno. Il nome è Donizetti, in coproduzione con due teatri italiani.
L’opera?
Il titolo lo stiamo ancora scegliendo. La direzione sarà di Diego Fasolis.
Per finire: c’è una ‘Traviata’ cui lei tende?
A mio parere, la più bella degli ultimi anni è stata quella di Robert Carsen. La considero la più interessante, molto attualizzante e contemporanea, modalità che non ha prodotto in me alcun tipo d’ispirazione, se non contraria. Ho sempre trovato in quell’edizione un’idea opposta alla mia, ma la più coerente e la più forte. Nel suo essere molto moderna è anche assai sfacciatamente legata al lato postribolare del personaggio, che è esattamente ciò che io non voglio, ma che mi aiuta a lavorare di contrasto. E comunque, condotta con una sapienza registica impressionante, come tutte le cose che fa Carsen, d’altra parte.
Lac
Carmelo Rifici