laR+ L’intervista

Vi spiego la ‘nostra’ Traviata (a colloquio con Markus Poschner)

‘Attuale come Shakespeare’, ma anche ‘profondo come Dylan’: è Verdi per il direttore dell’Osi (che non è un’orchestra,‘è una famiglia).

Markus Poschner: venerdì 2 settembre al Lac debutta La traviata
(Kaupo Kikkas su grafica Lac)
24 agosto 2022
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Nel camerino, poco sopra il pianoforte verticale a sua disposizione, c’è uno schermo sufficientemente grande da contenere l’intero palco della Sala Teatro, così che Markus Poschner non si debba perdere nemmeno un momento della ‘sua’ Traviata. «Niente, nemmeno le pause». È al termine di una delle prove pomeridiane che incontriamo il direttore principale dell’Osi, l’Orchestra della Svizzera italiana, quando alla ‘prima’ del capolavoro verdiano prodotto dal Lac mancano dieci giorni di calendario, che mentalmente, si suppone, saranno pressoché tutti lavorativi. «Ma sono felice», ci dice Poschner senza lesinare sorrisi. «Questa Traviata è la costruzione di una casa, messa in piedi, per di più, con persone ‘di casa’, appartenenti a questa regione, dal regista Carmelo Rifici all’orchestra, dal Coro della Radiotelevisione svizzera alla Civica Filarmonica di Lugano. Siamo coinvolti tutti, a partire da Michel Gagnon, direttore del Lac».

Maestro, nel marzo di quest’anno, presentando quest’opera, lei ha parlato di ‘nostra’ Traviata: com’è dunque la ‘vostra’ Traviata?

È innanzitutto una Traviata dal cast di voci internazionale: Airam Hernández, Alfredo, uno dei migliori tenori, Myrtò Papatanasiu, Violetta, una delle migliori soprano, e Giovanni Meoni, Giorgio Germont, che canta in tutto il mondo. Questa è per me la cosa essenziale. L’altro punto è che, normalmente, La traviata è qualcosa di allestibile in 2-3 giorni. È ‘mainstream’, è come Il flauto magico o Le nozze di Figaro, che non necessitano di prove. Questa Traviata è invece un progetto che sogno da molto tempo perché abbiamo il tempo necessario per raggiungere i segreti di una pietra miliare del XIX secolo. Verdi ha scritto un’opera straordinaria, toccante, un concentrato di emozioni – fragilità, tristezza, malinconia – ma soprattutto un’opera moderna, applicabile a ogni secolo, ogni anno, ogni giorno.

La Traviata porta con sé qualcosa di rock’n’roll, quel ‘live fast, die young’ che fu di tanti James Dean, quell’intensità inseguita dal Club dei 27 (gli artisti scomparsi a 27 anni, da Basquiat a Janis Joplin, da Jim Morrison a Amy Winehouse, a Jimi Hendrix, ndr). Nella Traviata, la chiave di volta è la malattia di Violetta, quella diagnosi capace di cambiare la vita di ognuno di noi, compromettendo desideri, passioni, sogni, mandando all’aria i piani di vita, costringendoci a fare tutto nel poco tempo che ci resta. Verdi ha scritto direttamente nel centro del nostro cuore, realizzando un capolavoro per il quale serve tutto il tempo a disposizione, così che si possano toccare tutte le potenti dimensioni, tutti i diversi livelli che si trovano nella partitura. E la Traviata in tre giorni è cliché, è una semplice istantanea, è la superficie e niente di più...

Il rock’n’roll ritorna. Ai tempi del ‘vostro’ Barbiere di Siviglia, lei definì Gioachino Rossini l’Elvis Presley dell’Ottocento: usando gli stessi parametri, a chi accosterebbe Verdi?

Pur essendo egli un compositore, è ovvio, mi spingerei comunque un poco oltre la musica. Verdi è più uno Shakespeare, in quanto autore senza tempo. È qualcuno che conosce i nostri cuori dall’alto di un’estrema purezza di fondo, la stessa che si ritrova in Aida, Falstaff, capolavori senza approcci ‘locali’, nei quali perde di significato l’epoca in cui questa musica è stata scritta, per diventare musica contemporanea a tutti gli effetti. Tornando alla Traviata, è sempre un problema di società, un problema di chi appartiene alla comunità e chi no, mai così attuale. Basta aprire i giornali, è tema di discussione quotidiana: chi è europeo e chi non lo è, e altre appartenenze che ritroviamo, drammaticamente, nella guerra all’Ucraina. Verdi si chiede cos’è la nostra società, quali sono le sue regole; Violetta non è parte dell’establishment, eppure i suoi sentimenti sono reali, puri, malgrado il marchio a fuoco della cortigiana. Violetta c’insegna che conta la tua storia, la vita interiore, che le regole sono il rispetto, la libertà, l’umanità, l’emozione. Per questo La traviata è contemporanea.

Verdi meno rocker e più ‘cantautore’, quindi?

Se proprio si vuole restare in ambiti strettamente musicali, allora direi Bob Dylan, per la sua capacità di comprendere l’animo umano.

Per la vostra Traviata, Carmelo Rifici ha voluto una Violetta nuovamente vittima, come nell’intento originario dell’autore, scevra dai contorni ‘festaioli’, meno ‘libiamo’ del solito: come, il direttore d’orchestra, segue le direzioni del regista?

La discussione con il regista è importante, perché la partitura offre molte possibilità di approccio, e possiamo raccontare questa storia in così tanti, differenti modi. Parlando di Carmelo Rifici, posso vantarmi di una partnership meravigliosa. Quest’idea di Traviata è nata tre anni fa, e nonostante il Covid è rimasta intatta nella nostra mente. Oggi discutiamo l’approccio personale, la fantasia personale, chi è per noi Violetta, chi è Germont, e ci troviamo sempre dalla stessa parte della storia, per raccontare la medesima storia. Ma la partitura non è mai né un manuale, né un libro di storia.

Tecnicamente parlando?

Piano, forte, accelerando, sono parametri che nulla hanno a che fare con la storia. Sono note e indicazioni presenti sulla partitura. Noi analizziamo le emozioni, cerchiamo le motivazioni, e dunque non parliamo di accelerando o ritardando, di crescendo o diminuendo di per sé, ma del perché dobbiamo fare un accelerando o un ritardando, un crescendo o un diminuendo. Deve esistere una ragione, ed è la cosa più importante. Ci sono milioni di motivi perché Violetta debba cantare a voce bassa, o esplodere in un fortissimo. Certo, Verdi quel fortissimo l’ha specificato sulla partitura, ma ci sono, anche qui, milioni di tipi di fortissimo: puoi gridare, o puoi produrti in un fortissimo espressivo, ma devi sempre essere molto chiaro sulla ragione per cui hai scelto di fare quel fortissimo. È come una poesia, che non è mai solo una questione di versi, ma anche di cosa sta dentro e dietro le parole. La musica è un linguaggio con al suo interno una sorta di meta-linguaggio. Diversamente da questo, diventa cosa per robot e computer, e un robot non ci mette molto a fare una Traviata.

Qual’è stato per l’Osi il transito, anche umano, da Rossini a Verdi?

Verdi è lo sviluppo logico di Rossini, che è il perfetto equilibrio tra ritmo, pattern, groove, tutte cose da vera rockstar. Verdi invece allarga la claviatura delle emozioni, espande il ruolo dell’orchestra, la vuole più leggera, quasi di commento alla scena, e fortemente legata alle emozioni dei cantanti. Il punto successivo di quanto abbiamo fatto e andremo a fare sarebbe Puccini. Quanto allo stato d’animo, siamo una famiglia: abbiamo condiviso gli alti e bassi di questi ultimi due anni, che sono stati un disastro per un’orchestra ritrovatasi senza più un pubblico, relegata allo streaming. L’entusiasmo che lei percepisce ha un significato particolare: crediamo l’uno nell’altro, esiste tra di noi una fiducia reciproca molto profonda, non dissimile a quella di un rapporto sentimentale. Solo in questa situazione puoi muoverti in un senso o nell’altro, solo così puoi prenderti dei rischi.


Samuele Ponzio
Durante le prove, all’Auditorio Stelio Molo