Il sindacato giallo (fu) leghista – che cercò di aggirare il salario minimo – cambia nome e comitato, ma conferma la sua vocazione servile
A certuni piacerebbero sindacati poco ingombranti, quasi invisibili, capaci di starsene in un angolino senza disturbare: un po’ come le utilitarie o gli apparecchi acustici. O come TiSin, divenuto ‘Sindacato libero della Svizzera italiana’ ora che i leghisti Boris Bignasca e Sabrina Aldi se la sono filata alla chetichella. Nella sua risoluzione il nuovo comitato – erede di quello che cercò di aggirare la legge sul salario minimo con un’operazione picaresca – "prende atto delle mutate realtà dell’economia moderna, nella quale la contrapposizione aprioristica sindacato-padronato risulta antistorica e sterile", e denuncia "la farragine burocratica generata dalle commissioni paritetiche attraverso controlli ripetitivi, spesso senza senso quando non vessatori". Se non altro, stavolta sono sinceri: dicono subito che la loro missione sarà quella di non disturbare il manovratore. È il sindacato ‘libero’, bellezza: libero anzitutto dalle rivendicazioni dei lavoratori, solido come la Bianchina di Fantozzi e pratico come un Amplifon da agganciare al timpano di certi padronazzi. Per fare orecchie da mercante.