Prima del documentario di Tornatore ci fu l’amata autobiografia: con Alessandro De Rosa rileggiamo ‘Inseguendo quel suono’, storia di musica e di vita.
“Quando sono nato io, molte delle sue composizioni già abitavano il pianeta da tempo”. Gli incipit dei libri sono decisivi per andare avanti. Basta una nota fuori posto, fuori tempo, e pagina due s’allontana. E invece a pagina due di un libro da lui scritto qualche anno più tardi, un giovane Alessandro De Rosa scopre che allo Spazio Oberdan di Milano c’è il Maestro; così masterizza su di un cd una manciata di musiche composte con il computer. Sulla busta: ‘Per Ennio Morricone’. Allo Spazio Oberdan di Milano, durante la conferenza, qualcuno chiede al Maestro: “Cosa pensa dei nuovi compositori?”. Morricone: “Dipende, spesso mi mandano a casa dei cd, solitamente ascolto qualche secondo e cestino tutto!”. Quanto bello dev’essere stato scoprire che il Maestro, tornato a casa con il cd in mano, aveva ascoltato quella traccia n. 11 che profumava di Stravinskij, tanto caro anche a lui; ancor più bello ritrovarsi in segreteria un suo messaggio. «Lo dovetti salvare perché anni fa i messaggi sulle segreterie dei cellulari venivano cancellati», dice oggi Alessandro De Rosa, al quale quel messaggio breve «aprì un’altra porta della mia vita, dandomi l’opportunità di capire meglio chi sono».
Incontriamo De Rosa nelle stanze della Rsi, a qualche ora da un’anteprima italiana di ‘Ennio’, il documentario voluto da Giuseppe Tornatore – per il Maestro, da sempre, ‘Peppuccio’ – che tra Morandi, Paoli, Springsteen, Bertolucci, Bellocchio, i Taviani, Barry Levinson, Oliver Stone, Quentin Tarantino e altri ancora, include anche l’autore del “miglior libro che mi riguarda, il più autentico, il più dettagliato e curato. Il più vero”. Parole di Morricone che insieme a De Rosa, nel 2016, produsse un documento imprescindibile per musicisti e non, chiamato ‘Inseguendo quel suono” (Mondadori), punto di arrivo di un’amicizia e di una stima professionale.
Il sottotitolo del libro, giunto alla terza edizione e pubblicato nelle più disparate lingue del pianeta (arabo, persiano, cinese, russo, coreano, giapponese), è ‘La mia musica, la mia vita’, che è un po’ anche il sottotitolo della biografia di Alessandro De Rosa, non in forma di libro perché non esiste (ancora) ma che amabilmente s’intravede nei dialoghi con l’amico e Maestro. Degli studi con Porena dirà lui qui, più avanti; del suo diploma in Composizione al Conservatorio Reale dell’Aja, della collaborazione con Jon Anderson degli Yes (da cui ‘L’Alchimista’ di Paulo Coelho messo in musica) diciamo noi. Anche del suo essere autore e speaker radiofonico Rsi in ‘Ascoltare il cinema’, per esempio. Quanto al suo disco, ‘Flesh and Soul (Pele e Alma)’ con la cantautrice brasiliana due volte disco di platino Fantine Tho, diremo presto.
«Quell’evento l’ho tenuto segreto a tutti. Ne erano a conoscenza soltanto mio fratello, i miei genitori e pochi altri. In prima istanza perché sarebbe parso come un racconto inventato, basato su chissà quale credibilità, e poi perché a furia di raccontare una cosa se ne perde il valore. Nella prefazione, però, era necessario vi fosse, perché è la radice del mio incontro con Ennio e di tutto quel che poi è avvenuto. E perché l’aneddoto parla non solo dell’intraprendenza di un giovane che si fa avanti coraggiosamente con un compositore di tale grandezza e così critico verso i giovani, ma anche dell’apertura di un grande che trova il tempo di dedicarsi all’altro. Per intenderci: io di cd ne ho dati tanti, ma non è che tutti abbiano richiamato…».
C’è un segno distintivo di questo libro, ne scrivi nella prefazione: è un libro che nasce dalla fiducia, e la fiducia, musicalmente parlando, si ottiene comprovando una certa competenza musicale…
Sì, la fiducia è qualcosa che possiamo avere, inizialmente, ma va confermata passo dopo passo. La fiducia è qualcosa per la quale, in ogni relazione, una goccia può crepare il vaso o tenerlo unito. La fiducia appartiene al divenire più che all’essere, e tutti i facenti parte della relazione devono contribuire a questa cosa che sta lì, a nostra disposizione, ma va sempre costruita. Certamente, Ennio pretendeva competenza. Bisogna mettersi nei panni di una persona così frequentemente intervistata. Non tutti erano a conoscenza dell’intera sua opera, per avere lui vissuto una vita molto particolare, per l’aver sognato di essere compositore d’altro tipo.
A volte arrivava un po’ infastidito a certi incontri, con qualche giornalista per esempio, ma non solo, e sempre per quel frequente restringersi dell’imbuto a poche cose fatte. Mentre lui, come ognuno di noi, voleva sentirsi capito. Un terreno comune sono stati i miei studi di composizione: mi riconobbe delle capacità invitandomi a studiare, cosa che io ho fatto con un grande maestro che si chiama Boris Porena, compagno di classe di Morricone, come lui allievo di Goffredo Petrassi, rispettatissimo da entrambi. Di Porena, Ennio mi disse: ‘Prendi tutto quello che puoi da lui perché è un grande’. Tutto questo è confluito nel sentirsi capito, anche musicalmente, per la possibilità di toccare insieme certi temi.
C’è poi il rapporto umano, extra musicale…
Quando il libro è nato, io ero un ragazzo e lui si trovava quasi alla fine della sua vita. Il nostro lavoro è iniziato anni prima della pubblicazione, conoscendoci, anche quando informalmente gli consegnavo i miei lavori musicali e lui mi diceva cosa ne pensasse. Ma anche più tardi, a libro finito, per continuare fino a quando, purtroppo, è scomparso. L’ultima volta in cui ci siamo sentiti risale al maggio dell 2020, all’arrivo della bella notizia che il libro sarebbe stato tradotto anche in arabo. E quell’ultima telefonata la ricordo bene perché era contentissimo, incredulo: “Ma come in arabo, addirittura?’, mi disse. ‘Sì Ennio, in arabo!”. Il Covid non ci ha più permesso d’incontrarci: ci siamo visti un’ultima volta l’8 febbraio del 2020, poi è arrivata la pandemia. Un’ultima telefonata e poi lui è caduto, è entrato in ospedale ed è successo quel che è successo.
‘Inseguendo quel suono’ non risparmia nulla di tecnico, né di aneddotico, restando leggibile per tutti, magari sorvolando i pentagrammi...
La leggibilità è stata la nostra speranza, a partire dalla domanda che mi sono posto nel momento di presa di coscienza della possibilità datami, nel chiedermi in quale modo avrei potuto narrare, se in prima persona, in terza, a conversazione. Ho pensato che nel caso di Ennio la conversazione fosse estremamente importante perché non era uno che parlava di sé; in prima persona non sarebbe stato credibile, in terza persona si sarebbe creato del distacco e non era quel che volevo raccontare. Uno dei miei modelli, che è stato anche tra i suoi, è Stravinskij, e il libro con Robert Kraft (‘Ricordi e commenti’, ndr) fu molto importante per entrambi. Dunque si è deciso di parlare così.
Quello che facciamo nel libro è cercare di stare in conversazione, in un equilibrio in cui Ennio dev’essere sempre al centro e io funzionale a quel che lui racconta. Non è solo domanda e risposta, è dialogo proattivo, che autogenera situazioni, che non esclude la complessità. Morricone è celebre anche per chi fa un lavoro completamente diverso dal musicista, ma rispettatissimo dai musicisti, è un compositore che si pone un problema nei confronti della musica del nostro tempo. Quindi come cercare di arrivare a tutti? Ci ho pensato in continuazione durante la scrittura.
In ‘Ennio’, di Tornatore, Morandi parla di contrappunto, ricordando l’arrangiamento di ‘In ginocchio da te’, e viene alla mente la vostra lunga conversazione sulla musica leggera…
Premettendo che Gianni Morandi è diplomato in contrabbasso, Ennio aveva un certo pudore nel parlare di questi percorsi, tenuti segreti a tutti, ai suoi compagni di classe, al maestro Petrassi. Quasi voleva non essere accreditato come Ennio Morricone e, addirittura, arrivò ai primi film western usando pseudonimi, vergognandosi di chi all’epoca, con la musica, faceva ‘commercio’, una bestemmia soprattutto in Italia e nelle regioni affini. Quando però si entrava insieme nel discorso, e lui capiva che nel mio caso c’era interesse, si ricordava di cose fatte con Mario Lanza, da ragazzino, nel 1958, improvvisamente riscoperte. E a ricordo iniziato, forte della straordinaria memoria, riportava alla luce composizioni degli anni 40 specificandone addirittura la tonalità. Una volta sentitosi rispettato, bisognava solo aprire la porta, per poi rendersi conto che i suoi arrangiamenti non erano per niente banali, che di leggero c’è poco. C’è, invece, molto pensiero. Basti pensare a quell’arrangiamento semplicissimo del 1961 di cui parlo spesso, ‘Il barattolo’ di Gianni Meccia, un brano che risollevò la Rca Italia che stava per fallire.
La Rca salvata dai rumori...
I rumori del barattolo. Lì dentro c’è talmente tanto in così poco: c’è il percorso di un compositore che si è reso conto che nel Novecento non ci sono solo i suoni e i silenzi ma pure i rumori, la musica concreta, e arriva a una sintesi in cui gli strumenti ti collocano inequivocabilmente negli anni Sessanta, ma con la presenza di questo ‘ufo’, il barattolo fisico, che ha un senso col testo. È uno shock informativo, sono quelli che nel libro chiamiamo ‘cortocircuiti culturali’, è la sua ricerca di connessioni, anche destinate a mettere a posto parti di sé. Un compositore totale.
“Tratta il mio cuore così / Come fosse un barattolo / Lo fa girare qua e là / Senza nessuna pietà”, di cui si canticchia più spesso “Rotola, rotola, rotola / Strada facendo rotola”…
Sì, il malcapitato preso a calci da un amore che lo ha abbandonato, e il suo cuore preso a pedate da un destino di sofferenze. Ennio pensò che questo stato d’animo potesse essere reso proprio dal suono di un barattolo che rotolasse in terra. Col digitale sarebbe stato un attimo mettere tutto a tempo; i rumoristi alla Rca, invece, così come si faceva nei radiodrammi, dovettero trovare l’artificio, inizialmente costruendo una rampa coi chiodi, che non funzionò; alla fine, Ennio prese il barattolo cercando di riprodurre l’effetto della gravità su di esso. E si riuscì a catturare il suono desiderato, che diventò ‘Il barattolo’ da un milione e mezzo di copie.
In ‘Ennio’ si vede e si ascolta anche Alessandro De Rosa.
Ci sono anche io, mi dicono anche in maniera massiccia. Lo ha voluto Ennio, lo ha voluto Tornatore e sì, è così. Era il 2015 e Giuseppe ancora doveva iniziare. Ricordo che Ennio mi raccontava del dover fare le riprese in casa, con tutta la paura che gli combinassero qualche guaio, a lui che non amava apparire. Ma era l’amico Tornatore a fargli questa cosa e si sentiva onorato. Mi raccontò delle idee di partenza, poi l’opera si prese tanto tempo. La pandemia, a un certo punto, si è messa di mezzo. Le interviste a Ennio sono durate 10-11 giorni, poi ci sono stati gli ospiti, quelli in America, un parterre pazzesco.
Vorrei chiudere chiedendoti di poter ascoltare il messaggio sulla segreteria, citerò invece il passaggio del libro in cui riassumi la vostra lunga conversazione come “la punta dell’iceberg di ciò che ho trovato”: cosa, e quanto c’era al di sotto?
Tanto, di materiale se n’è raccolto tanto. Ho promesso a Ennio che finché avrò la possibilità di respirare, una parte della mia vita sarà comunque dedicata alla ricerca di ciò che lui ha fatto, per provare a far sapere chi è stato, secondo me. Questo lavoro non si è mai fermato. ‘Inseguendo quel suono’ credo sia un ottimo risultato, ma come ogni punto di arrivo, lo dice Ennio nel libro, è anche un punto di ripartenza. Spero che tramite le sue parole le persone s’interessino alle sue opere, e così potrà fare questo documentario che parlerà a un pubblico diverso da quello della letteratura e dei podcast. Speriamo che in tanti possano innamorarsi non solo della vita di Morricone, ma anche della musica, ponendosi domande. Tutto ciò che apre la porta, in questo senso, è di grande importanza. Non so cosa arriverà, ma io nel frattempo continuerò a cercare (www.alessandroderosa.com).