Le storie dell'eterno conflitto tra corpo e mente vissuto da campioni e campionesse le cui certezze, ma soltanto all'apparenza, paiono inscalfibili
Quando il corpo c'è e la testa invece no. Sono le storie di gente come Simone Biles, superstar statunitense della ginnastica, o Naomi Osaka, la numero due delle gerarchie mondiali del tennis, che ai Giochi di Tokyo hanno portato alla luce una delle grandi sfide a cui i grandi dello sport sono confrontati dietro le quinte: quella con la pressione, le aspettative, e la paura di sbagliare dei gesti ripetuti migliaia e migliaia di volte in allenamento. Vincere, a volte, è la cosa più difficile da gestire, e spesso quando succede ci si trova disarmati contro la depressione. Tanto che è capitato anche capitato anche a Mister Olimpia, al secolo Michael Phelps, che dopo i trionfi di Londra rimase chiuso nella sua stanza d'albergo per stanza cinque giorni, e ancor oggi predica l'importanza di non nascondere la propria vulnerabilità. Oppure Ian Thorpe, che finì in ospedale dopo aver annegato i cattivi pensieri nell'alcol, esperienza simile a quella vissuta da un altro grande del nuoto,
Ryan Lochte. Sono battaglie aperte con la propria mente, per gente che oltretutto è abituata a faticare in solitudine, come Mark Cavendish, Marcel Kittel o Tom Dumoulin. Battaglie che, in qualche caso, sono finite in tragedia: come successe nel caso di Kelly Catlin, tre volte campionessa del mondo nell'inseguimento di ciclismo a squadre, medaglia d'argento ai Giochi di Rio.
C'è una docuserie che racconta bene i tormenti di Naomi Osaka, e forse non è un caso se quella dedicata a Biles si intitola ‘Simone contro se stessa‘ (Simone vs Herself). La ventiquattrenne ginnasta con una trentina tra medaglie olimpiche e mondiali in una bacheca che non ha paura di mettere bene in vista sui propri social. Di paura, invece, ne ha avuta qualche ora fa, e parecchia, prima della finale del concorso completo femminile, fra i "demoni in testa" e quel piede visibilmente fasciato, notato dai media americani, con cui si è presentata alla gara senza partecipare, ma tifando per le compagne, porgendo loro la polvere di magnesia, e poi festeggiando con loro l'argento dopo aver reso onore alle vincitrici, le atlete olimpiche russe. «Ho solo pensato che fosse meglio fare un passo
indietro lavorando sulla mia consapevolezza e sapevo che le ragazze avrebbero fatto un lavoro assolutamente grandioso – spiega in conferenza stampa la ragazza nata a Columbus, nell'Ohio –. Non volevo che la squadra rischiasse la medaglia per una mia cavolata, perché loro hanno lavorato davvero troppo duro così ho deciso che spettasse alle ragazze proseguire il resto della gara». Prima di ammettere: «No, non ho più la fiducia in me stessa che avevo prima. Non so se centra l'età, ma quando salgo in pedana sono più nervosa di un tempo. E ho l'impressione di non aver più la stessa gioia»
Fra i molti messaggi d'incoraggiamento giunti alla Biles c'è quello di Jay Ruderman, presidente della fondazione di famiglia impegnata nel combattere gli stigma associati con la salute mentale: «Il suo coraggio fornisce un contributo fondamentale: oggi la sua trasparenza ha permesso alla salute mentale di prendere il posto che le spetta nel dibattito pubblico. Ed è una chiara indicazione che dobbiamo fare un lavoro migliore per sostenere i nostri atleti».