Lascia dopo 23 Slam. Il suo fisico massiccio ed esplosivo è sempre stato al centro dell’attenzione, mostrando il razzismo di chi la criticava
Quando è scesa in campo a Flushing Meadows per la sua prima finale in uno Slam, Serena Williams non aveva ancora compiuto 18 anni. Portava un completino giallo canarino e delle treccine bianche che durante il servizio ondulavano all’indietro come alghe sulla battigia. Questi servizi raggiungevano velocità mai viste nel tennis femminile: 195 km/h, 200, 210. Toccavano angoli interni ed esterni con una frequenza paurosa. Dall’altra parte della rete Martina Hingis sembrava in balia di una forza aliena, di un fenomeno naturale rispetto a cui l’essere umano è ridotto a spettatore.
Hingis passa alcuni game in risposta a passeggiare tra il lato della parità e quello del vantaggio senza sfiorare la palla; i suoi servizi invece sembrano appoggi innocui e amichevoli, e nemmeno il tempo di riabbassare gli occhi dall’altro lato del campo, che gli è arrivata una risposta vincente. Il campo da tennis sembra piccolo per Serena Williams, e gigante per Martina Hingis. Su certi servizi dell’avversaria l’americana si getta col corpo in avanti verso la pallina che sta ancora salendo. La colpisce con un’urgenza che va oltre il normale spirito competitivo, un desiderio sostanziale di affermazione nel mondo.
Nessuno, guardando oggi la partita a digiuno di informazioni, potrebbe dire che Martina Hingis, tra le due, era la campionessa favorita, mentre Serena Williams era la sfidante, l’intrusa, la sorpresa. Avevano solo un anno di differenza e Hingis, ad appena 18 anni, era già una pluricampionessa Slam. Serena, invece, era solo la versione minore e sgraziata di sua sorella Venus, numero tre del mondo e considerata la futura dominatrice del circuito.
Venus era stata sconfitta in semifinale da Hingis, che Serena in quella partita batte in due set lunghi meno di un’ora e mezza. Durante la premiazione Hingis guarda Serena dal basso verso l’alto, non avrebbe più vinto uno Slam in singolare. Era l’ultima campionessa di un tennis che non c’è più, Serena è invece la prima campionessa di un tennis che non c’è ancora.
Con la sorella Venus dopo la vittoria nel doppio a Wimbledon 2013 (Keystone)
Cresciuta all’ombra della sorella, sotto la spinta zelante di un padre a metà tra il folle e il visionario, Serena non somiglia all’ideale femminile della tennista di successo. Ha origini modeste, un corpo massiccio e la pelle nera. Ha imparato a giocare sui campi pubblici in cemento di Compton. Il padre ha portato le sue figlie nel ghetto per farle indurire, rincorrendo la visione poco convenzionale di due campionesse di tennis afro-americane.
Da quando non era nemmeno adolescente circolano leggende sul suo conto, sulla sua forza fisica, sulla potenza che riesce a proiettare su una pallina da tennis. Si era guadagnata soprannomi come "pitbull", o "palla di fuoco", che cercavano di descrivere quest’energia eccessiva, debordante.
Esordisce a 14 anni nelle qualificazioni di un periferico torneo del Quebec. Il campo della sua prima partita da professionista è accanto a un bar dove si fumano sigarette, si mangiano gelati e si guarda distrattamente questa ragazzina perdere 6-1 6-1 contro Annie Miller (best ranking: 40). Ci mette tre anni a vincere il suo primo Slam, e poi altri tre a vincerne ancora, a diventare numero uno del mondo, a battere sua sorella nella finale del Roland Garros. Non si fermerà più, la batterà ancora e ancora: da piccola sognava di essere Venus, ma è diventata migliore di lei.
Le vittorie delle sorelle Williams non sono neutre, ovviamente, ma politiche, per questioni di genere, di razza, di classe. Quelle di Serena lo sono però ancora di più per una ragione evidente: il suo corpo.
Se il corpo di Venus, elegante e slanciato, coincide di più con l’immagine che un uomo può proiettare su una tennista, il corpo di Serena è eccezionale in tutti i sensi. È un corpo forte, esplosivo, maestoso. Da quando inizia a vincere il suo corpo diventa un argomento di discussione più o meno esplicito. È chiaro, le persone non hanno alcun problema col suo corpo, ma intanto commentano le dimensione dei suoi seni, dei suoi glutei, delle sue cosce, del suo collo, delle sue braccia. Persino della sua faccia, dei suoi zigomi, delle sue labbra. È un corpo vivisezionato e giudicato pezzo dopo pezzo dallo sguardo maschile e bianco. È un corpo che non poteva vestirsi come voleva, che a differenza di quello – bianco e biondo – di Maria Sharapova non avrebbe dovuto permettersi completini fluorescenti, gonne corte o capi troppo attillati.
Serena Williams nel 2012 (Keystone)
È un corpo su cui nessuno ha problemi, chiaro, ma intanto è un corpo che viene disapprovato negli stadi, con fischi e ululati razzisti. Nel 1997 la romena Irina Spirlea la urta volontariamente durante un cambio campo. Nel 2001, nello stadio di casa di Indian Wells, all’inizio della finale contro la belga e bianca Kim Clijsters, fischi e ululati ricoprono lei, sua sorella, suo padre. Ha 19 anni, vince il torneo e dopo la partita piange a dirotto, ferma nella macchina di famiglia fuori da una pompa di benzina. Quando perde un punto le persone applaudono, quando vince un punto rimangono in silenzio. "È diventato subito normale per me che le persone non facessero il tifo per me, perché ero diversa, il mio aspetto era diverso".
Oltre agli episodi più palesi ci sono quelli più sottili, una specie di distorsione percettiva che la circonda creata dal razzismo sistemico, quello più difficile da riconoscere. La difficoltà a parlare di lei come la migliore tennista al mondo, il cedere di continuo a stereotipi razziali persino in buona fede. Serena Williams vince perché grossa e atletica, le qualità tipiche degli atleti neri, non perché ha un braccio eccezionale, una grande capacità tattica e una forza mentale fuori scala, quelli sono attributi da bianchi. Ci sono, specie a inizio carriera, arbitraggi dubbi e controversi. Nei quarti di finale degli Us Open del 2004 perde da Jennifer Capriati, in una partita viziata da un numero esagerato di chiamate sbagliate.
Sulla spiaggia di Miami nel 2015 (Keystone)
Davanti a tutti questi episodi Serena ha provato a rimanere calma e composta, cercando di parlare attraverso il gioco. Non sempre ci è riuscita. Nel 2009, durante la semifinale degli Us Open contro Clijsters sbraita verso un giudice di linea: "Giuro su Dio, ti ficco questa pallina nella gola". Serena chiede scusa, ma non basta a evitarle la gogna pubblica. Negli anni viene definita irascibile, arrogante, poco rispettosa delle sue avversarie. Questo per il moralismo conservatore che affligge il tennis, ma anche perché una donna nera ha bisogno di essere più irreprensibile delle altre per essere davvero amata.
Serena invece ha sempre fatto le cose a modo suo, con toni spesso chiassosi, ostentando i lati più luminosi e non nascondendo quelli più oscuri. A differenze di altri atleti, non ha avuto paura di mostrarsi come una persona complessa e ricca di contraddizioni.
È stata una tennista divisiva, ma chi l’ha odiata ha finito per descrivere più sé stesso che Serena. Negli anni è diventata meno litigiosa, meno spigolosa, ma nel 2018 ha vissuto forse l’episodio peggiore per la propria reputazione. Col suo status di icona ormai consolidato, ha di nuovo perso la lucidità in campo contro un arbitro. Nella finale degli Us Open del 2018, di fronte a Naomi Osaka, una delle tenniste cresciute nel suo mito, alla sua prima finale Slam, Serena chiama l’arbitro "ladro" e lo accusa di sessismo. Cosa che ovviamente le attira la solita nuvola razzista.
Dopo la partita l’Herald Sun pubblica una vignetta in cui Serena appare trasfigurata con uno stile caricaturale da inizio ‘900, mentre la sua avversaria è bionda e bianca (e ci sarebbe da chiedersi chi è, di certo non Naomi Osaka). Rispetto ai suoi primi anni però il contesto attorno a lei è cambiato e la sensibilità su razzismo e sessismo, soprattutto negli Stati Uniti, è diversa.
Trionfatrice a Melbourne (Keystone)
Rispetto a questi temi a Serena Williams è stato riconosciuto un ruolo da pioniera, da persona che si è presa i proiettili prima degli altri. Non è stata la prima tennista nera di successo, ma è stata la prima tennista nera a essere diventata la migliore al mondo nell’epoca di maggiore esposizione mediatica dello sport, pagandone il prezzo. Serena ha portato avanti queste battaglie senza una particolare volontà politica, ma la sua semplice affermazione individuale, e della sua identità, si è stratificata di significati politici.
È difficile quantificare l’impatto di Serena Williams sul tema della body positivity, per esempio, ma di certo il suo corpo ha rappresentato uno dei messaggi più potenti nella cultura contemporanea. Un corpo che non ha dovuto rinunciare alla sua forza per esprimere la sua bellezza.
Nel 2017 si ritira dal circuito per un anno, è incinta di una bambina, Olympia. Quando torna, al Roland Garros, è ancora attraverso il corpo che Serena decide di comunicare i propri significati politici. Indossa un completo ultra-aderente che le dà un’aria solenne e predatoria. Lo definisce "un messaggio per tutte le mamme del mondo".
Negli ultimi anni, in un contesto più celebrativo nei suoi confronti, è stata più a proprio agio a indossare i panni dell’icona mediatica. Non vince uno Slam dal 2017 e negli ultimi anni il suo corpo di quarantenne è sembrato sempre più stanco e incapace di trovare picchi competitivi. Nel servizio di Vogue in cui ha annunciato il suo ritiro, però, Serena mostra questo corpo ancora con orgoglio ed eleganza. Ci sono le foto di oggi, in cui indossa un’elegante abito da sera turchese, ma ci sono anche diverse foto che Annie Leibovitz le ha scattato negli anni, nel tentativo impossibile di imprigionare l’intensità plastica del suo corpo eccezionale.
Alla prima del film su suo padre "King Richard" (Keystone)
Tra qualche settimana Serena Williams tornerà a New York per l’ultima volta e tutto è cambiato attorno a lei rispetto da quando ha battuto Martina Hingis nel 1999. Nel frattempo ha vinto 73 titoli Wta, di cui 23 tornei dello Slam, è diventata un’icona, un esempio, "la più grande atleta della storia statunitense" l’ha definita il New Yorker. Da qualche anno vive l’esperienza paradossale di giocare contro avversarie cresciute col suo poster in camera. Un privilegio che capita solo alle atlete così longeve da diventare postume a sé stesse.
Nell’articolo di Vogue racconta che sua figlia non fa che chiederle una sorellina. Dice che se fosse stata un uomo, come Tom Brady, magari avrebbe potuto permettersi il lusso di continuare a inseguire il sogno del ventiquattresimo Slam con cui avrebbe eguagliato Margaret Court. Avrebbe potuto continuare a nutrire il suo immane spirito competitivo. Da donna però è stata costretta a prendere una decisione, tra la vita e il tennis.
A Toronto ha detto di non essere brava negli addii, e ripete che non le piace pensare molto alla propria legacy, alla propria storia ed eredità sportiva. Suonano come due bugie: Serena sa comunicare in modo maturo, ed è perfettamente consapevole del suo potere, sa come maneggiarlo. È stata la nostra fortuna e continuerà a esserla.
Serena Williams ha vinto in carriera 23 Slam (Keystone)