Il Paese africano, dopo aver ottenuto i Mondiali di ciclismo 2025, sta trattando coi vertici della Formula 1 per entrare nel calendario del Mondiale
Piccolo territorio montagnoso – molto meno esteso della Svizzera ma molto più popolato – il Ruanda è conosciuto alle nostre latitudini quasi soltanto per il genocidio che vi si perpetrò esattamente trent’anni fa, quando gli appartenenti all’etnia maggioritaria Hutu (84%) pensarono bene di eliminare circa 1 milione di persone del popolo Tutsi. Fu il culmine di tre decenni di soprusi nei confronti della minoranza (15%) che dai belgi aveva ricevuto il potere e il permesso di esercitarlo senza alcuna limitazione, salvo poi – poco prima della decolonizzazione – vederselo sfilare di mano per essere consegnato ai rivali, che ovviamente non vedevano l’ora di vendicarsi per le angherie e le vessazioni subite.
Paese da sempre poverissimo, munto all’inverosimile dapprima dai tedeschi e poi dal Belgio per le sue risorse naturali – specie tè e caffè, ma anche tungsteno, oro, berillio e gas naturale –, e privo di sbocchi sul mare, di strade e di autentiche città salvo la capitale Kigali, dopo la mattanza del 1994, perpetrata fra aprile e luglio a colpi di machete, il Ruanda si ritrovò se possibile ancor più in bolletta, praticamente fallito e del tutto dipendente dagli aiuti internazionali.
Stupisce dunque – ed è notizia di pochi giorni fa – che le autorità ruandesi stiano trattando coi padroni del circus della Formula per inserire il Paese, in un prossimo futuro, nel calendario del Mondiale. Per la verità, una certa sorpresa l’aveva suscitata, qualche anno addietro, anche sapere che i Campionati iridati di ciclismo del 2025, dunque l’anno venturo, li avrebbe ospitati proprio Kigali. Per carità, tutti i continenti hanno il sacrosanto diritto di organizzare grandi eventi sportivi, ma a farlo sono di solito grandi nazioni che attraversano periodi di relativa prosperità, e non casi disperati come quello ruandese. L’investimento per i Mondiali del pedale si aggira oggi infatti sui venti milioni di franchi, una cifra che ormai faticano spesso a mettere insieme anche le metropoli europee. Ma si tratta comunque di bruscolini, se paragonati al budget richiesto per diventare sede per qualche anno di gare di Formula1: quei venti milioni, infatti, quando si parla di motori non sarebbero sufficienti nemmeno per inoltrare la candidatura preliminare, visto che in quell’ambiente si ha ormai a che fare con cifre nell’ordine di svariati miliardi, anche considerato il fatto che – in caso la trattativa andasse in porto – si dovrà poi procedere a costruire da zero un tracciato di gara di ultima generazione e innumerevoli infrastrutture di contorno, oggi del tutto assenti.
Forse, per capire come tutto ciò possa accadere, è utile andare a vedere chi comanda in Ruanda ormai dal lontano anno 2000: trattasi di Paul Kagame, ex militare e politico di etnia Tutsi dal passato non proprio trasparente, dai legami compromettenti con diversi Stati confinanti (ma anche molto più lontani) e dal pugno decisamente di ferro. Vero è che, sotto la sua dittatura – non c’è altro modo per definirla, dato che ogni volta viene rieletto con percentuali che vanno dal 94,3 del 2003 al 99,15% dell’ultima chiamata alle urne – la corruzione è quasi scomparsa ed economicamente il Paese è leggermente cresciuto, anche grazie ai gorilla di montagna che richiamano turisti abbienti. I metodi utilizzati, però, lasciano parecchio a desiderare: abolizione di tutti i partiti diversi dal Fronte Patriottico Ruandese (di cui Kagame fu, in esilio in Uganda, fra i fondatori), chiusura dei tre più importanti quotidiani, misteriosa scomparsa e ricomparsa (cadaveri) di alcuni giornalisti e sistematici interventi per cucire la bocca ai pochi politici che osano sfidarlo. Senza contare il mancato rispetto dei diritti civili e umani in generale.
Ecco, dunque, chi tiene in mano le redini del Paese a cui – forse sull’esempio della Fifa, che fa affari coi peggiori Stati canaglie – dapprima i vertici mondiali del ciclismo e ora anche i pezzi grossi della Formula 1 intendono abbinare il proprio nome, i propri ricchissimi sponsor e le proprie attività. Tutti – tranne probabilmente il popolo ruandese – hanno qualcosa da ricavarci: a livello di pecunia o di (parziale) ripulitura di immagine, tramite il cosiddetto sportwashing che pare andar sempre più di moda.