Il ticinese specialista delle gobbe è pronto disputare quelle Olimpiadi sfuggitegli di un soffio già due volte. E stavolta ci si è messo pure il Covid...
Marco Tadè è un po’ più vicino a Coronare il suo sogno. O meglio, il suo obiettivo, come ha sempre preferito definirlo il 26enne di Tenero, atterrato proprio ieri a Pechino per disputare la sua prima Olimpiade. E chiudere così un cerchio che lo specialista delle gobbe aveva aperto nella stagione 2011/2012, quando era approdato in Coppa del mondo pieno di entusiasmo e aspettative, poi solo in parte confermate dai risultati. Non certo per mancanza di talento, bensì per un destino beffardo che dopo averlo messo in rampa di lancio con il bronzo mondiale conquistato nel 2017 a soli 21 anni (nel dual moguls, mentre nel moguls aveva chiuso la rassegna iridata in Sierra Nevada al quarto posto), l’anno seguente gli aveva presentato un conto salatissimo da pagare: infortunio al ginocchio nell’ultima prova prima dei Giochi di Pyeongchang e tanti saluti all’avventura a cinque cerchi, che aveva tra l’altro già solo accarezzato quattro anni prima a Sochi, quando invece del 20esimo posto necessario per qualificarsi si era fermato al 21esimo. È seguito un lungo percorso di riabilitazione, il rientro “soft” nell’inverno 2019/2020 e quello vero nel 2020/2021, come testimoniato dal terzo podio di Coppa del mondo della sua carriera (secondo nella gara di apertura di Ruka) e da altri quattro piazzamenti tra i migliori 17 (tra cui un 5o posto). E adesso, a sette giorni dalla cerimonia di apertura dei XXIV Giochi olimpici invernali, è a Pechino.
«Il viaggio è andato bene – ci ha raccontato poche ore dopo essere atterrato nella capitale cinese Marco, che assieme al suo allenatore Giacomo Matiz e ad altri componenti della delegazione rossocrociata ha approfittato di uno dei voli speciali operati da Swiss –. Il volo è stato tranquillo, poi all’aeroporto c’era un po’ di confusione e tra tamponi, dogana, eccetera, ci sono volute quasi due ore per avere i bagagli. In seguito siamo saliti su degli autobus e dopo un viaggio di circa tre ore e mezza siamo arrivati in uno dei villaggi olimpici, quello più lontano (Zhangjiakou, circa 2’800 posti letto 160 chilometri a nordovest di Pechino, ndr). Non ho ancora visto molto, ma una cosa la posso già dire: fuori fa freddo, molto freddo».
E dentro? Che emozioni stai vivendo a un passo dal tuo sogno?
«Per adesso sono ancora tranquillo. E più che di sogno parlerei di obiettivo. Che mi è sfuggito già due volte visto che otto anni fa non ero riuscito a qualificarmi e nel 2018 mi ero rotto, però proprio la voglia di continuare a inseguirlo mi ha aiutato, assieme ad altro, ad andare avanti e a non mollare, in particolare nei momenti difficili. Sì, essere qui è una bella soddisfazione».
I fantasmi del passato sono riaffiorati? Hai avuto paura di non farcela nemmeno stavolta?
«Paura no, più che altro magari ogni tanto sulla pista mi sono trattenuto un pochino, per non rischiare. Ormai sono tre anni che sono tornato, faccio attenzione ma sto bene. Nell’ultima tappa di Coppa del mondo (il 13 e 14 gennaio a Deer Valley, ndr) la neve era particolarmente dura e nella prima gara ho preso una botta a un piede, così il giorno, visto che anche con gli antidolorifici mi dava fastidio, ho preferito non partire, anche perché non c’era motivo di spingere fino in fondo. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, è conoscere il mio corpo e sapere come gestirlo».
Ora come stai e in che stato di forma sei arrivato a Pechino?
«Sto bene, Il problema al piede è ormai superato e nell’ultima settimana prima di partire abbiamo deciso di non andare a sciare, concentrandoci sulla preparazione fisica. Mi sento in forma e pronto a dare tutto».
Sei uno che non si accontenta, sarà così anche stavolta o visto il passato sei già contento di esserci?
«No, anzi, se mi fossi qualificato già otto o quattro anni fa, magari stavolta avrei potuto affrontare questa Olimpiade in maniera diversa, godendomela senza troppe aspettative. Invece, pensando a quello che voglio anche in chiave futura, punto a fare risultato e per riuscirci darò tutto dal primo giorno di allenamento all’ultimo di gara».
Alle Olimpiadi fare risultato significa salire sul podio…
«Certo, perlomeno per il bronzo il discorso è molto aperto».
Ma com’è cambiato il Marco atleta in questi anni?
«Sicuramente gli infortuni ti cambiano e io ne ho avuti tanti. Come detto adesso devo un po’ gestirmi e anche il modo di sciare è diverso rispetto agli inizi. Nonostante tutto, trovo però che il livello che ho raggiunto sia più alto del 2017 (l’anno del bronzo mondiale, ndr). I risultati di questa stagione sono quello che sono (solo in due occasioni nella top 20, ndr) un po’ perché a volte ho sciato con il freno a mano tirato, un po’ perché mi è mancato sempre quel qualcosa per mettere insieme tutti i pezzi. Ma sono sicuro che è risolvibile, le sensazioni sono buone e abbiamo ancora diversi giorni per provare la pista e prepararci al meglio per la gara».
Nello specifico su cosa devi lavorare?
«Devo eseguire dei salti belli ampi, perché è quello che guardano tanto i giudici. Devo poi atterrare con le gambe ben chiuse e sciare pulito. Sono piccolezze ma che fanno la differenza. E so di poterle “sistemare”».
Rimanendo sui salti, presenterai qualcosa di particolare?
«A inizio stagione siamo partiti con delle idee ma strada facendo sono un po’ cambiate. Un salto nuovo, un Double full (doppio avvitamento), lo vorremmo portare in gara; l’altro, un Cork 1000 grab (con avvitamento fuori asse), probabilmente non lo faremo in quanto a Ruka avrei dovuto provarlo ma sono caduto qualche metro prima. Inoltre parlando con alcuni giudici, me l’hanno un po’ smontato, nel senso che non paga abbastanza rispetto alla difficoltà d’esecuzione».
A proposito di difficoltà, quanto ha pesato la delicata situazione sanitaria nell’avvicinamento a questi Giochi?
«Non poco, devo ammettere. Soprattutto in queste ultime settimane, abbiamo vissuta una sorta di terrorismo psicologico, perché un tampone positivo avrebbe compromesso tutto. Anche per questo abbiamo rinunciato ad andare sulle piste. Tutto quello che potevamo fare per proteggerci lo abbiamo messo in pratica, basti pensare che l’unica persona che ho visto ultimamente è Giacomo (Matiz, l’allenatore, mentre la parte acrobatica è affidata a Juan Domeniconi, ndr), con il quale ho condiviso l’appartamento negli ultimi dieci giorni».
Una situazione da gestire anche a livello mentale, ti sei fatto aiutare?
«Assolutamente sì ma come succedeva già prima, con un mental coach, perché nello sport la testa conta almeno tanto quanto gli altri aspetti come il fisico o la tecnica. Se non di più».
E adesso? Cosa succederà nei prossimi giorni e come si svolgerà la gara?
«Dovremmo poter iniziare ad allenarci sulla neve domenica, mentre giovedì 3 febbraio (il giorno prima delle cerimonia di apertura, ndr) ci sarà la qualifica uno, alla quale prenderanno parte trenta atleti: i dieci migliori si qualificheranno direttamente per la finale, gli altri venti sabato 5 affronteranno la qualifica due, dalla quale usciranno altri dieci finalisti. Le manche di finale, lo stesso giorno, saranno invece tre: da venti atleti nella prima si passerà a dodici nella seconda e infine ai sei che si giocheranno le medaglie nella terza. Spero di farne parte».