Dauphin, il caso Moy e le buone decisioni al momento giusto. ‘Ho riflettuto molto, e credo che una buona preparazione possa aiutare a scegliere in fretta’
È passato più di un mese, da quel brutto episodio sul ghiaccio di Rapperswil che ha sollevato le più accese critiche ai quattro angoli della Svizzera nei confronti di Laurent Dauphin, dopo la carica dell’attaccante leventinese ai danni di Tyler Moy. Al di là del gesto, su cui si è ampiamente dibattuto nelle passate settimane, un episodio che avrebbe potuto provocare gravi conseguenze è involontariamente servito per dimostrare una volta di più quanto importante sia saper gestire le emozioni in uno sport come l’hockey, che fa del contatto fisico e della velocità (d’esecuzione, ma pure di ragionamento) la sua essenza.
Certo è che, nonostante sia passato del tempo, di quella sera di fine ottobre serberà a lungo ricordo il ventottenne originario di Repentigny, città del Québec affacciata sul fiume San Lorenzo. «Da quel giorno sono stati parecchi i momenti di riflessione – spiega Laurent Dauphin –. L’hockey è una cosa importante, ma la vita lo è ancor di più: si trattava di fare un passo indietro e capire che, pur se l’intensità è elevata, ciò che accade durante un match può avere ripercussioni anche fuori dal ghiaccio. Quindi la prossima volta dovrò prima tirare due respiri belli grossi, per evitare che un gesto simile si possa ripetere.
Nell’hockey non ci si stanca di dire che una delle chiavi per vincere è imporsi nei duelli con chi ti capita a tiro: in altre parole, è innegabile che la fisicità – entro certi limiti, beninteso – faccia parte del suo Dna.
È uno sport molto fisico, questo è sicuro, ma al tempo stesso è anche molto veloce, e non è sempre facile riuscire a prendere in pochi decimi di secondo una decisione che potrebbe avere delle ripercussioni. Penso che una preparazione prima delle partite e il rifletterci qualche volta possa aiutare a fare le scelte giuste al momento giusto.
Dopo quello che è successo, credi che ti riuscirà più facile scegliere in fretta l’opzione migliore mentre stai per affrontare un avversario alla balaustra?
Sì, immagino che mi riuscirà più semplice prendere la decisione giusta. A meno che, ovviamente, l’avversario non decida di voltarsi improvvisamente all’ultimo istante: in quel caso non c’è nulla che tu possa fare. Ripensando all’episodio con Tyler, credo che in quel momento avessi addosso molta frustrazione, ed è stato quello ad avermi portato a fare quel gesto. Forse dovrei rimanere più calmo durante le partite, per far sì che le emozioni rimangano stabili: immagino che in quell’occasione un simile atteggiamento mi avrebbe aiutato. Poi sono cosciente che certe cose in futuro magari potrebbero capitare di nuovo, ma spero che una buona riflessione mi possa aiutare a gestire determinate situazioni.
Ma è realmente possibile far sempre la cosa giusta quando si ha soltanto una frazione di secondo per decidere? Tipo: chiudo il check oppure no? O ancora: libero il terzo per vie centrali, lungo la balaustra oppure sfruttando il plexiglas come sponda?
Effettivamente è così: è questione d’istinto, oltre che di rapidità d’esecuzione. E i giocatori non tutti sono uguali, in quello c’è indubbiamente chi è migliore di altri. Di solito, con il disco prendo sempre la decisione giusta, mentre a livello di contrasti s’è visto che non è sempre il caso... Tuttavia penso che una buona preparazione mentale aiuti a decidere in fretta. Sia nel gioco, sia nei duelli fisici.
È qualcosa che si può allenare, oppure è soltanto parte del bagaglio di ciò che comunemente viene definito ‘hockey sense’?
Credo che un pochino lo si possa esercitare. Per esempio si possono allenare gli occhi per migliorare la velocità di reazione, oppure si possono guardare dei video per scoprire qualche trucchetto, ma alla fine della fiera tanto dipende da cosa acquisisci quando sei bambino. Ed è possibile che due giocatori che svolgono i medesimi esercizi alla fine otterranno risultati diversi.
Certo che in Canada sarà anche più dura, siccome le piste sono più strette rispetto a quelle europee.
Dal punto di vista del gioco, qui si ha sicuramente più tempo per immaginare cosa fare del disco, siccome c’è più spazio. Tuttavia non sempre è pagante: riuscirai sì a guadagnare spazio, ma se ti allarghi verso la balaustra non fai altro che allontanarti ancor di più dalla porta. Pertanto direi che non è necessariamente quella la miglior cosa da fare.
Una settimana dopo l’episodio di Rapperswil, nel Regno Unito ha perso la vita l’attaccante statunitense Adam Johnson, ucciso a soli 29 anni da una ferita alla gola infertagli dal pattino di un avversario. Nelle ultime partite ti abbiamo visto scendere in pista con una protezione per il collo: quell’episodio ha cambiato la tua percezione dei rischi?
Sicuramente una simile tragedia ti porta a riflettere. Ora che ho un figlio di cinque mesi, dopo quella scena non mi vedevo più scendere in pista senza una protezione, e visto che era disponibile è stato facile per me decidere di ordinarne una.
Tra l’altro, la Federhockey internazionale l’altroieri ha stabilito che in futuro renderà obbligatorio il paracollo nei tornei di sua competenza: credi che i giocatori saranno i primi ad adottarli oppure aspetteranno che entri in vigore tale decisione?
Immagino che la scelta dell’Iihf possa dare una spinta ulteriore, ma da noi ad Ambrì so che ci sono giocatori che già l’hanno ordinato. Lunedì, del resto, abbiamo avuto un incontro con il nostro direttore generale, il quale ci consigliava fortemente di indossarlo. Oggigiorno ci sono più alternative, e penso che sempre più gente lo porterà.
Quindi non è vero che i giocatori di hockey sono una specie di gladiatori che non temono nulla: c’è anche una parte di responsabilità.
Indubbiamente non potete venirci a dire che siamo dei fifoni (ride, ndr). Qui, però, parliamo della vita, e se c’è la vita in gioco uno è abbastanza intelligente da guardare alla realtà delle cose.
C’è chi sostiene che gli hockeisti a volte sono trattati come oggetti più che come esseri umani, alludendo a quando vengono utilizzati come merce di scambio nel bel mezzo della stagione tra le franchigie della Nhl: così, può capitare che la domenica ti addormenti sotto una palma in Florida, e due giorni dopo al tuo risveglio ti ritrovi a Calgary sotto un metro di neve...
Questo è l’aspetto più difficile dello sport nordamericano. Non so bene come funzioni qui, ho troppa poca esperienza al di qua dell’Atlantico, ma là è così che stanno le cose: fa parte del business, del resto sei pagato anche per quello, ma indubbiamente non è facile. Né sul piano psicologico né per la fiducia in te stesso, oltre che per la tua famiglia.
Tutto questo vagabondare ti fa almeno crescere come persona?
Ciò che so è che la prima volta è la più difficile, e ti aiuta per quelle successive. In realtà, però, non si è mai davvero pronti. Per quanto possibile, è meglio rimanere nello stesso posto.
Come succede da noi, appunto. Tanto che i primi elvetici approdati in Nhl vennero etichettati come giocatori poco propensi al sacrificio, a differenza dei nordamericani che sono pronti a tutto. Ma è davvero così?
È buffo, perché ne parlavo proprio l’altro giorno con Dario Bürgler e gli ho detto che ha una grande fortuna a vivere in Svizzera. Lui lo sa bene, e mi ha spiegato che qui è più facile, che non ci sono tutti quegli sballottamenti.
Dev’essere stato questo, uno dei fattori che ti ha portato a scegliere l’Europa...
Di certo è un grande vantaggio poter dormire ogni notte nel proprio letto, soprattutto ora che in casa c’è un neonato. Per me è stata una buona scelta venire qui, ma i viaggi sono solo uno dei tanti aspetti: per esempio, giocando meno partite c’è più tempo libero rispetto alla Nhl. Diciamo che c’è un insieme di ragioni che mi ha spinto a prendere tale decisione.
La pressione, invece? È percezione nostra, o è vero che in Canada si è obbligati sin da piccoli a doverla gestire?
Di sicuro in Nordamerica l’hockey riveste una grandissima importanza, forse è quello che ti prepara per bene. Quando diventi professionista, devi comunque riuscire a mettere da parte il resto e a concentrarti solo su te stesso. Non ti serve a nulla sapere cosa la gente pensi di te, a meno che non t’informi esclusivamente quando tutto va a gonfie vele (ride, ndr).
Si può diventare immuni alle critiche?
Diciamo che a inizio carriera ci prestavo abbastanza attenzione, ma ho ben presto capito che non è quella la cosa da fare. Del resto, può succedere che qualche giornalista sostenga che tu abbia giocato male mentre tu invece ti ritieni soddisfatto. Da questo punto di vista, giocare a Montreal è qualcosa di estremo: è lì che ho deciso di non guardare più la televisione, Facebook o quant’altro. Ed è ciò che bisogna fare, secondo me.
A proposito di pressione: il 5 gennaio l’Ambrì per la seconda volta in stagione torna sul ghiaccio di Rapperswil. Viste le premesse, hai mai pensato a cosa potrebbe succedere quel venerdì sera?
Immagino (sorride) che girerà qualche spintone in più. Non so come funzionino le cose in questa Lega: di sicuro in Nhl ci sarebbe qualcuno che verrebbe a cercarmi... Sono cose che fanno parte del gioco, ma io cercherò di concentrarmi esclusivamente sulla partita.