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Da quando Senna non corre più...

Fra i più grandi piloti della storia, Ayrton moriva in pista trent’anni fa e la sua scomparsa indusse la Formula 1 a investire parecchio nella sicurezza

In sintesi:
  • La morte di Senna nel 1994 sconvolse il Circus come mai era successo in precedenza e indusse i dirigenti a investire massicciamente nella sicurezza dei circuiti e delle monoposto
  • Durante quel maledetto e tragico weekend, che vide fra l'altro morire anche l'austriaco Roland Ratzenberger, Ayrton si era molto depresso, forse presagendo ciò che gli sarebbe successo
  • A convincere il brasiliano a correre quella domenica fu Frank Williams, secondo il quale un forfait di Senna avrebbe messo a rischio troppi contratti e troppi soldi
30 aprile 2024
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Trent’anni sono passati in un soffio. I bambini di allora hanno abbandonato da tempo le loro camerette, i poster sono stati tirati giù dai muri o si sono staccati da soli. Gli adulti di oggi non dimenticano gli eroi che li hanno esaltati da piccoli, e tornano con sempre maggiore frequenza le loro immagini stipate nella memoria.

Sbuca come da un sogno la tuta da pilota, nera con i bordi d’oro; poi quella completamente rossa, dello stesso colore delle monoposto per cui loro, i bambini di una volta, facevano il tifo, le auto su cui avrebbero voluto che l’eroe corresse. Il casco giallo che svettava sull’abitacolo, percorso da due bande, una nera e l’altra verde, i colori del suo Brasile. Ayrton Senna non c’è più da trent’anni, ma non se n’è mai veramente andato, è ben presente nei ricordi di chi l’ha visto correre in macchina almeno una volta.

I segnali della tragedia

In quel 1° maggio di trent’anni fa, le avvisaglie della tragedia imminente c’erano state tutte e il conto a Imola, in quel weekend maledetto – un conto drammatico, più simile a un bollettino di guerra che al riassunto di una corsa automobilistica – poteva essere peggiore. L’austriaco Roland Ratzenberger morto al sabato, ucciso dalla collisione tra la sua Simtek e il muro di cemento all’esterno della curva intitolata a Villeneuve.

Al venerdì, la Jordan di Rubens Barrichello ha spiccato il volo passando su un cordolo: se le reti di protezione avessero ceduto, la monoposto avrebbe investito i commissari di pista, i pompieri e gli altri uomini del pronto intervento. Pezzi delle vetture di JJ Lehto e Pedro Lamy volati dopo il crash al via e proiettati tra il pubblico, due spettatori feriti. E il bilancio poteva essere più grave se uno pneumatico, volato sopra la tribuna e finito nel parcheggio, fosse caduto più in basso. Al settimo giro, lo schianto al Tamburello della Williams guidata dall’asso brasiliano, inguidabile per la rottura del piantone dello sterzo.

Nel 1987 e nel ’91, Nelson Piquet e Michele Alboreto hanno avuto conseguenze irrisorie dopo incidenti analoghi alla stessa curva. Gerhard Berger, sempre al Tamburello, nel 1989, è uscito illeso tra le fiamme della sua Ferrari. Per Senna non c’è stato scampo, un pezzo di carbonio della sospensione è passato tra visiera e casco, una differenza di pochi centimetri e sarebbe sopravvissuto.

A Imola, il suo credito con la fortuna si era esaurito. Guidare per Senna era una forma di lotta. Sembrava fare a botte con la sua auto, per come dava correzioni continue al volante per tenere in pista i mille e più cavalli imbizzarriti del motore, per come tirava colpi sulla leva del cambio con la violenza di chi infligge una coltellata, per come pigiava forte sul pedale dell’acceleratore anche in percorrenza di curva.

Una forma di trascendenza

A quei tempi era una lotta per tutti: Nigel Mansell piegava i volanti e li sostituiva a metà corsa, una volta disse che quelle monoposto sembravano vive, e pronte a rivoltarsi contro il pilota. Per Senna era qualcosa in più: un passaggio attraverso l’esperienza della sofferenza, una curva alla volta, un giro alla volta, per provare a elevarsi verso uno stato di grazia superiore.

Ci riuscì in vita sua forse una volta sola: durante le qualifiche del Gran Premio di Monaco del 1988 inflisse un gap clamoroso a un signor pilota come Alain Prost. Senna disse di aver avuto un’esperienza extracorporea nell’abitacolo della sua auto, le curve e i saliscendi del Principato erano spariti, lui stesso si era annullato, per il tempo di un giro non ha avuto né carne né nervi, era diventato coscienza pura. Il giorno dopo, in gara, mise a muro la sua McLaren. Si disse che si era distratto, che aveva accumulato sul secondo classificato persino troppo vantaggio. Forse stava ricercando la sensazione di trascendenza del giorno prima, e nel farlo si perse.

Un carisma ineguagliabile

Viene da chiedersi cosa resta dell’esperienza di Senna in Formula 1. Perché ricordiamo lui e non uno dei tanti martiri della Formula 1 consacrati sulle piste. Non contano i tre titoli mondiali, le quarantuno vittorie, le sessantacinque pole position. In Formula 1, dopo, c’è stato chi ha vinto di più, i record aspettano solo di essere battuti. Senna dello sport dei motori era un alfiere, lo era anche al di là del talento di guida, che pure era purissimo e indiscutibile.

Aveva una capacità comunicativa e un carisma naturale che conquistava, davanti alle telecamere di mezzo mondo: in qualunque lingua parlasse, fra le tante che padroneggiava, riusciva ad abbattere la quarta parete, quella televisiva, ed entrava nelle case. Qualsiasi cosa dicesse, eravamo disposti a credergli, il suo dialogo non procedeva mai orizzontalmente, scendeva invece in profondità, scandagliava le sue paure e i desideri, che erano poi gli stessi di ogni altro animo umano: «Siamo fatti di emozioni. È solo questione di trovare il modo per provarle». La Formula 1 non ha più avuto uno come lui, e difficilmente in futuro riuscirà a scovarlo.

Una cesura epocale

Con la molta lucidità che contraddistingue ogni uomo politico di lungo corso, il presidente della Federazione Internazionale dell’Automobilismo Max Mosley, la sera del 1° maggio ’94, disse: «È la Formula 1 che è morta». Non tutti percepiscono da subito che la scomparsa di Senna è una cesura enorme. Una morte avvenuta in diretta, vissuta attraverso l’occhio montato sull’elicottero della tv, che filmava gli inutili, disperati soccorsi; un altro elicottero atterrava in pista per prelevare il corpo e portarlo all’Ospedale Maggiore di Bologna; la gara che intanto proseguiva, senza senso per alcuno; e le ore lunghe come una febbre, passate in attesa di una buona notizia, fino al drammatico annuncio della fine, Senna si è spento, come la luce di quel pomeriggio di inizio maggio andava stemperandosi nella sera.

Nessun tifoso, per quanto accanito, è stato disposto a rivivere la stessa luttuosa esperienza. La sicurezza si è imposta come il tema centrale, in uno sport che non era pronto a discuterne, lo testimoniano le comiche conseguenze dei primi mesi, i regolamenti cambiati in corso d’opera, le soluzioni improvvisate sui circuiti domenica dopo domenica.

È sparita del tutto la vecchia Formula 1, quella in cui i piloti erano disposti a morire per contratto, loro stessi raccontavano che era parte del gioco. Proprio i piloti, anni prima, avevano isolato Niki Lauda, il primo tra loro ad avere una sensibilità diversa, sviluppata ben prima del tragico incidente del Nürburgring che ha lasciato l’austriaco sfigurato in volto. Lauda, che alla fine del tragico 1976 rientrava ai box dopo aver verificato che il circuito del Fuji era impraticabile per la troppa pioggia, lasciava sull’asfalto un titolo mondiale e gli sguardi dei colleghi che proseguivano nella corsa, facendosi beffe del suo esempio.

Lo nascondeva, ma era terrorizzato

Il 1994 è l’anno in cui è nata la rivoluzione della sicurezza, i cui semi erano stati piantati da Lauda, ma che Senna in persona aveva poi curato. Sembra difficile da credere, spericolato com’era e disposto a tutto, incapace alla resa. Ayrton, negli ultimi mesi della propria vita, aveva affiancato Sid Watkins, il decano dei medici che assistevano i piloti in pista. Accanto all’anziano dottore valutava i rischi del suo mestiere, metteva sull’altro piatto della bilancia i tanti agi della bella vita che un pilota di rango fa, e l’ago non pendeva più dalla parte consueta.

Mentre ai microfoni faceva finta di niente, mentre diceva di non aver paura di morire, proprio perché la morte era ben presente, era all’interno del suo campo visivo, Senna era terrorizzato. A Imola, dopo che Ratzenberger era spirato, era visibilmente scosso. Watkins, per la prima volta, gli chiese di non correre.

Il brasiliano si lasciò persuadere dal suo datore di lavoro, Frank Williams, a salire in auto l’indomani. Troppi contratti sarebbero saltati senza una corsa, troppi soldi, su cui le scuderie facevano affidamento, sarebbero andati perduti. Williams stesso non era in fondo convinto di aver fatto la scelta giusta, dopo aver incontrato Senna nei box, volle rivederlo la sera, in albergo, per sincerarsi del suo umore.

Invecchiato di colpo

Sullo schieramento, la domenica della gara, Senna era teso, al punto che, nonostante fosse poco più che trentenne, sembrava invecchiato di colpo. Aveva tutt’altro smalto Michael Schumacher, nella corazza scintillante dei suoi venticinque anni. A fine ’94 si sarebbe preso il titolo, ad Adelaide, speronando l’altro pretendente e mettendolo fuori gara, una manovra alla Senna.

Durante le interviste, sul viso raggiante di Schumacher passò come un’ombra, un’improvvisa consapevolezza e la vergogna provata per un pensiero afferrato per la coda, proprio lì davanti a tutti, davanti alle telecamere accese, l’improvvisa confessione: questo titolo non è mio, è di Ayrton, se fosse rimasto vivo avrebbe vinto lui.

Per il brasiliano sarebbe stato il quarto titolo, avrebbe raggiunto il numero di allori di Alain Prost, l’odiatissimo francese dal quale, nella mattinata di Imola, Ayrton si era congedato: «Ti voglio bene, Alain». Il messaggio consegnato attraverso la radio, mentre testava le ultime novità in vista della gara, così irrituale per lui, così imprevisto. L’ultima mossa alla Senna della sua vita.