Il più antico torneo per nazionali, in scena da domani negli Usa, vedrà in lizza, oltre a 10 sudamericane, anche 6 compagini appartenenti alla Concacaf
Quando, esattamente trent’anni fa, Diana Ross ha calciato un rigore sbilenco dando inizio alla Coppa del Mondo di Usa ’94, pochi sarebbero stati disposti a credere che l’epicentro dell’attenzione calcistica, nel continente americano, si sarebbe mai più spostato così a nord.
Tra pochi giorni, invece, prenderà inizio in territorio statunitense una delle Copa América più rispondenti alla Dottrina di Monroe di sempre: un trofeo – e non uno qualsiasi, ma il più antico trofeo continentale per nazioni – che darà davvero l’America agli americani. Le squadre che si contenderanno la vittoria finale saranno, infatti, tanto quelle della Conmebol quanto quelle della Concacaf, sedici nazionali in tutto pronte a bissare l’edizione del Centenario del 2016, che si era tenuta sempre negli States.
Se il panamericanismo di quell’edizione aveva come pretesto, però, il Centenario della fondazione del torneo, quella che sta per partire, invece, risponde a criteri pratici: oltre, pragmaticamente, alle difficoltà organizzative che a oggi avrebbe incontrato ogni Paese latinoamericano, la Copa América 2024 sarà la celebrazione del carattere sempre più latino degli States – in ogni città in cui si terranno le partite della Copa la popolazione ispanica costituisce una fetta importante della popolazione, tra il 30 e il 40% con un picco del 70% in Florida – e rappresenterà un importante test in vista della Coppa del Mondo che si appresta a tornare in Nord America, nel 2026, quando i Paesi organizzatori saranno Stati Uniti, Canada e Messico.
I segnali che sono arrivati durante le ultime amichevoli di warm-up giocate in terra yankee dalle partecipanti al torneo sono incoraggianti dal punto di vista dell’entusiasmo, e del feedback commerciale.
Se era facile – ma non scontato – immaginare che l’A&M’s Kyle Field, in Texas, ai confini col Messico, raggiungesse il pienone con 80mila spettatori a tifare per il Tri contro il Brasile, decisamente meno scontate sono state le 55mila persone accorse per Usa-Brasile o le 65mila che hanno gridato il nome di Messi in Argentina-Guatemala a Washington, una città che non ha neppure una squadra in Mls, la massima competizione nazionale.
Il soccer, negli States, ha ormai superato la soglia di diffidenza, e se già gli spettatori medi dell’Atlanta United in Mls, oggi, si aggirano intorno alle cifre che in Serie A, per fare un paragone, sono quelle di Napoli o Juventus, c’è da prevedere che lieviteranno durante la Copa al suono delle cumbias, dei mariachi, dei bombos.
È fin troppo didascalico che, a distanza di neppure un anno, l’arrivo di Lionel Messi a Miami abbia creato un ‘hype’ smisurato non solo in vista dei Mondiali, ma anche a più stretto giro per questa Copa América, e che abbia contribuito a (ri)mettere gli States prepotentemente al centro dei radar calcistici mondiali, oltre che a ricreare un pezzo di Argentina fuori dall’Argentina. Tanto più dal momento che l’Afa, la Federazione argentina, ha aperto il suo primo centro d’allenamento fuori dal Paese proprio in Florida.
Quello che Messi sta giocando a Miami è un torneo a sé, fatto di record sbriciolati e conquiste anche culturali. Ha fatto convogliare in Florida, oltre agli amici di Barcellona Busquets, Jordi Alba e Suárez coinvolti in una reunion sentimentale (che stando agli ultimi rumor potrebbe allargarsi a Di Marìa), anche giovani talenti ammaliati dalla possibilità di dividere il campo con lui, come Federico Redondo, figlio della leggenda Fernando.
Ha consegnato al giovanissimo club proprietà di David Beckham un trofeo, e semplicemente ha raccolto numeri alieni: nell’ultimo tratto di stagione in 12 partite ha segnato 12 gol e fornito 9 assist, qualcosa di irreale, dimostrando di essere tutt’altro che un calciatore demotivato, spento, appagato. Anzi, al contrario, elevando a potenza la curiosità di vedere fin dove la sua capacità di rompere il calcio possa spingersi, soprattutto in questa Copa América che si preannuncia come la sua last dance, il suo commiato all’Albiceleste, anche se in limine alla competizione, forse subodorando la nostra voglia di godercelo fin quando sarà possibile, o la sua, non ha del tutto escluso che possa provare ad arrivare al Mondiale.
Chi invece definitivamente abbandonerà l’Albiceleste al termine della Copa sarà el Fideo Di Marìa, che arriva alla competizione dopo una stagione di alti e bassi al Benfica e che spera solo in un commiato glorioso, al termine del quale poter tornare, con l’anima in pace, in patria per un ultimo semestre al Rosario Central; o magari sbarcare in Mls.
Vederli duettare nell’ultima amichevole pre-competizione contro il Guatemala ha restituito tutto l’entusiasmo che li anima, ma ci ha anche fatto prendere consapevolezza di quanto, probabilmente, ci mancheranno quando il fútbol argentino, senza di loro, sarà irrimediabilmente un’altra cosa. All’altro estremo di un arcobaleno che tramonta c’è sempre un principio di magnificenza iridescente che sorge.
La Copa América 2024 sarà anche il ballo del debuttante, su un grande palcoscenico, di un diciassettenne che è già la next big thing del calcio mondiale, esploso nel Palmeiras e già del Real Madrid: Endrick. Per il momento Dorival Júnior, come è giusto che sia, gli ha concesso solo scampoli di partite, nelle quali però il giovanissimo si è già dimostrato in grado di irrompere come un unicorno imbufalito: soltanto un giocatore aveva già segnato, alla sua età, tre reti con la Seleçao, e non c’è bisogno di dire chi fosse, e in più le tre reti sono arrivate, oltre che contro il Messico, di fronte alla Spagna, e all’Inghilterra nientemeno che a Wembley.
Se il Brasile, privo di Neymar Jr, può contare in attacco su giocatori molto diversi tra loro – tutti equidistanti dall’idea classica di nove – come Rodrygo, Raphinha e Vinicius Junior, Endrick si presenta come un credibilissimo erede di Ronaldo. Fenomeno, se non lo è già – ha più di venti reti tra i professionisti, la prima segnata appena sedicenne –, lo diventerà.
Chi, invece, fenomenale quest’anno lo è già stato è Vinicius Junior, che con un occhio a Kroos e all’Europeo che sta giocando in casa, in Germania, cercherà di lanciare durante la Copa la volata al compagno di squadra del Real Madrid per spostare gli equilibri che porteranno all’assegnazione del prossimo Pallone d’Oro.
Reduce dalla vittoria della Champions League e da una stagione monstre impreziosita da 24 gol, Vini dovrà – e vorrà – dimostrare quanto il suo carisma e la consapevolezza di sé possano essere decisivi anche a livello di Nazionali. Intorno ha una squadra lontana dal futebol bailado ma quadrata, e insieme all’Argentina il Brasile è sicuramente il massimo favorito alla vittoria finale.
Alle spalle della coppia destinata irrimediabilmente a essere favorita, in questa Copa América la potenziale outsider potrebbe tornare a essere l’Uruguay, che sotto la guida di Marcelo el Loco Bielsa ha ritrovato un’identità compatta, forte anche di un Federico Valverde nel suo prime, e può contare su una sacca di talento – anagraficamente bilanciato tra giovani rampanti e veterani affidabili – di prim’ordine.
Il caudillo che siede sul frigo portatile, finora, si è già tolto la soddisfazione di battere sia Argentina che Brasile durante le qualificazioni ai Mondiali, di convocare un amateur per un’amichevole della Celeste e in generale sembra tornato sereno, per niente schiavo del suo personaggio.
Ha rispolverato Darwin Núñez (tripletta in una delle ultime amichevoli), ma ha soprattutto rimesso in piedi la giostra delle verticalizzazioni, della pressione selvaggia, dell’intensità vertiginosa, presentandosi a questa Copa América come primum inter pares di una scuola di suoi epigoni, da Jesse Marsch alla guida del Canada a Jaime el Actor Lozano sulla panca del Messico, che profuma sì di sudamericanità, ma ancor più di bielsismo.
El Loco ha anche aggregato alla rosa della Celeste, proprio all’ultimo minuto, el pistolero Luís Suárez, in forma smagliante al fianco di Messi a Miami e capofila di una serie di campioni che della Copa América hanno segnato la storia recente, e il cui sole sembra non voler tramontare mai.
Negli States ci saranno il venezuelano Salomón Rondón e il quarantenne peruviano Paolo Guerrero, il cileno Edu Vargas al fianco di un Alexis Sánchez mai così centrale nel progetto cileno, i redivivi colombiani James Rodríguez e Juanfer Quintero e il costaricano Joel Campbell, tutti calciatori metronomi di un tempo che sembra non voler trascorrere e che invece passa inesorabile, mentre il continente si evolve e assiste alla nascita di nuove nazionali giovani, intraprendenti e ambiziose, come gli yankees del leader carismatico e tecnico Christian Pulisic, o come il Messico reduce da un cambio di rotta giovanilistico.
Oppure come una Vinotinto venezuelana finalmente competitiva, o ancora come un Ecuador che può contare su alcuni dei giovani più brillanti del continente, da Moisés Caicedo del Chelsea al minorenne Kendry Páez; e sì, anche come un Canada che, dopo essersi qualificato per la seconda volta ai Mondiali (2022), non vuole smettere di stupire, e che sarà guidato in questa Copa da Jesse Marsch, statunitense formatosi alla scuola del “calcio energy drink” di Salisburgo e Lipsia.
A squadre come Bolivia, Jamaica, Paraguay e Panama, lungi che un ruolo mesto da sparring partner, sembra destinata la sorte di rendere difficili le cose che sembrano semplicissime, imprevedibile il plausibile: il reale meraviglioso. In fondo, il fascino della massima competizione continentale è sempre stato questo, e non c’è ragione per cui non debba ripetersi nella Terra dei Liberi e nella Casa dei Coraggiosi: insomma, in quella che può essere la Copa più America di sempre.