Battendo in finale la Colombia, l’Albiceleste fa sua la Copa América bissando il trionfo del Maracanã. È il quarto titolo in tre anni
«Solo la risata ha saputo scavare tunnel più utili di tutte le lacrime sulla terra», scrive Julio Cortázar in ‘Rayuela’. Nel sorriso di Lionel Messi mentre solleva la Copa América, mentre la bacia, mentre la passa al Fideo Di Maria, c’è tutta la forza prepotente della luce che si staglia, inevitabile e anelata, al termine di un tunnel pieno – letteralmente – di lacrime. Confermarsi campioni della Copa América a distanza di tre anni dal successo del Maracanã, inanellare il quarto titolo in tre anni – incluso il trionfo magnificente nel Mondiale qatariota – battendo in finale una brillantissima Colombia – di gran lunga la miglior squadra vista nel torneo – non è stato un cammino lastricato di rose. La Selección ha dovuto affrontare la sfida di ripetersi, di confermarsi gruppo baciato dalla sindrome di Re Mida, rimanendo uguale a sé stessa, resistendo allo scorrere inesorabile del tempo, e all’inevitabile caducità dei suoi uomini più rappresentativi. Di vincere nonostante loro. Di vincere sostanzialmente per loro.
Le lacrime di Lionel Messi, costretto ad abdicare a mezz’ora dalla fine, ci hanno messi di fronte a un assunto inequivocabile: nel calcio, come nella vita, siamo parte di un ciclo biologico destinato a terminare. In un libro uscito recentemente in Argentina, che si chiama ‘Ya está. Variaciones sobre Messi’, l’autore José Santamarina ha scritto che Lionel è “l’illimitata riproposizione del dramma del limite”. Se da una parte non smette di travalicarli, i limiti – questa Copa è il suo quarantecinquesimo titolo personale, oltre che la sedicesima vittoria che fa dell’Albiceleste la Nazionale più titolata del continente –, dall’altra Messi, giorno dopo giorno, sembra esserne sempre più schiavo. L’infortunio a due riprese – la caviglia poggiata male a un quarto d’ora dalla fine del primo tempo, la resa al quarto d’ora del secondo tempo – poteva risultare lo snodo fondamentale di una partita bloccata, nervosa, scorbutica: la capitolazione dell’eroe che scatena la furia nemica. Le lacrime di Leo, le mani portate al volto, la caviglia scoperta, nuda, gonfia, distrutta sono invece state l’Ecce Homo che ha risvegliato l’orgoglio, l’identità, il senso di appartenenza di un gruppo che vive la militanza in Albiceleste non come qualcosa che si fa con lui, ma per lui. Come ha scritto Juan Villoro, il numero che si porta sulle spalle il diez non è che quello delle persone di cui, in campo, si prende cura.
(Keystone)
Non doveva andare così...
La finale di Miami è iniziata con un’ora e mezza di ritardo a causa dell’approssimazione con cui la Conmebol ha gestito la sicurezza al momento degli ingressi. Gli scontri ai tornelli, il tentativo – maldestramente andato a vuoto – di permettere l’ingresso al pubblico in tempo per lo spettacolo ha fatto sì che l’attesa si protraesse, l’ansia crescesse, le promesse di spettacolo scemassero in un brodo di tensione che si è riflettuto anche in campo, nell’approccio alla partita delle contendenti. Bielsa, nella conferenza stampa successiva all’eliminazione del suo Uruguay, in questo si era rivelato profetico: da un punto di vista organizzativo, questa Copa América è stata un disastro che non lascia ben sperare in vista dei Mondiali che, a queste latitudini, si giocheranno tra due anni. A mettere a posto le cose, a quanto pare, non basterà Padre Tempo.
Ogni cosa a suo tempo. E no, al contrario di quel che si dice, l’attesa non è per niente essa stessa il piacere. Lautaro Martínez ha atteso l’arrivo di questa Copa América con un senso di rivalsa che probabilmente non aveva nessun altro compagno della Selección. Il suo approccio era quello di chi ha un conto in sospeso: nella fattispecie, riprendersi il centro dell’attacco che gli era sfuggito di mano in Qatar, a scapito di Julián Álvarez. Ci è riuscito nelle prime partite, andandoselo a strappare come sa fare meglio: segnando, con puntualità, inappuntabile terminale offensivo, cecchino spietato. Poi Scaloni, al quale va riconosciuta la coerenza, è tornato a puntare sul centravanti del Manchester City, riservandosi la capacità di scardinare le difese avversarie come un toro nell’encierro di Pamplona di Lautaro nei momenti più delicati, o pivotali. La mossa con cui ha deciso di mandare in campo, contemporaneamente, Lautaro, Paredes e Lo Celso sarà ricordata come l’ennesima masterclass di Scaloni, l’uomo venuto dal nulla per conquistare tutto: il gol decisivo per la vittoria argentina verrà proprio da una combinazione dei tre, obbedienti gangli di un ingranaggio dal funzionamento perfetto, capace di rigenerarsi ai primi cenni di ruggine. Il diagonale con cui ha perforato la porta difesa da Camilo Vargas è valso a Lautaro il quinto centro nella competizione e il titolo di capocannoniere, ancor più prezioso se consideriamo che il bottino è stato raccolto nella miseria di 221 minuti, una rete ogni quarantaquattro minuti. Una rete per tempo.
(Keystone)
Lautaro Martinez esulta dopo aver trovato il gol
Non è ancora tempo, e forse mai lo sarà, per l’introduzione di un halftime show nel calcio. Quella di Shakira, avvolta da fiamme e ritmi in levare nell’intervallo della finale, è stata una performance di dubbia utlità non solo perché ha rimarcato l’incompatibilità di base tra due visioni del fútbol, all’interno del continente americano, diametralmente opposte, ma anche e soprattutto perché si è inscritto nel solco dell’incoerenza secondo la quale ha sprimacciato la durata dell’intervallo a un tempo inaccettabile, ben oltre i canonici quindici minuti. Così inaccettabile che solo poche settimane fa proprio la Conmebol ha comminato sanzioni disciplinari – e multe salate – agli allenatori rei di aver fatto rientrare le squadre in campo oltre – appunto – i quindici minuti canonici.
(Keystone)
Così non va...
La Colombia non ha saputo interrompere la linea del tempo che, inesorabile, conduceva verso il trionfo albiceleste. Aveva l’occasione di fare la storia, tornare a vincere una Copa che manca dal 2001, prolungare una striscia di imbattibilità che sembrava infinita, e invece si è dovuta arrendere all’avanzata inarrestabile di una squadra coriacea e prepotente, interrompendo il percorso proprio laddove era iniziato ventotto partite fa. Non foss’altro, Néstor Lorenzo ci ha restituito un James Rodríguez in grande spolvero, finalmente rinato, testimonianza che la caducità del tempo, in fondo, a volte, può anche arrestarsi.
Perfettamente puntuale all’appuntamento con l’inesorabilità e con la gloria, invece, si è presentato il Fideo Di Maria. Che questa Copa América fosse la sua last dance con l’Albiceleste era chiaro fin dall’inizio: forse è per questo che i compagni hanno fatto di tutto affinché potessero arrivare fino in fondo. Ad adoperarsi per procrastinare l’addio del Fideo – un addio al quale nessuno, Di Maria incluso, sembrava davvero pronto – è stato soprattutto Messi, in qualche modo in debito con il compagno per averne offuscato per decenni la stella altresì rilucente, tanto che prima della semifinale con il Canada, negli spogliatoi, in un’arringa accorata ha pregato i compagni di arrivare in finale soprattutto per lui. Di Maria è rimasto in campo per centoquindici minuti, un’eternità considerando l’apporto che ha dato alla squadra: è stato l’ideale prosecuzione sul rettangolo verde proprio di Messi, che gli ha cinto il braccio con la fascia da capitano. Le lacrime con le quali ha lasciato il prato dell’Hard Rock Stadium, però, non avevano il sapore agrodolce di quelle del Lusail – quando forzatamente ai margini era costretto ad assistere a una storia ancora in divenire. Sono state piuttosto il preludio a una gioia letterariamente necessaria, giusta, che dà al progetto della Scaloneta un senso di compiutezza.
Quando il presidente della Conmebol Domínguez ha consegnato la Copa, a riceverla non c’era solo Messi. Al suo fianco Leo ha voluto che ci fossero anche Otamendi e Di Maria. È stato un ideale rito di passaggio, dall’esperienza della vecchia guardia alle nuove generazioni, in una linea di continuità nella quale si inscrive il ciclo formidabile della Scaloneta.
(Keystone)
Di Maria, Messi e con il trofeo Otamendi
Così come il Mondiale qatariota aveva trovato una rispondenza quasi esoterica nella carta del cinque di coppe dei tarocchi, molte significazioni ci sono anche, per questa Copa América, nella carta che segue, il sei. Un vecchio incanutito stringe tra le mani il prezioso cimelio: gli fanno compagnia quelle di un bambino. Credo voglia dire che la gloria, in qualche modo, non è solo condivisa, ma tramandabile. E che a ogni lacrima versata, sia questa di dolore o di gioia, di delusione o di commozione, nell’Argentina di oggi possono ben fare da contraltare numerosi sorrisi.
I sorrisi di chi ha la consapevolezza, alla fine della fiera, di aver scritto una pagina di storia indelebile.