Domani a Wembley tedeschi e spagnoli si sfideranno in una finale di Champions League in cui tutti vedono i madridisti nettamente favoriti
Nel 2013 il calcio sembrava essere arrivato a un punto di svolta epocale. Il Borussia Dortmund di Jürgen Klopp, dopo aver vinto le ultime due edizioni della Bundesliga, si era qualificato alla finale di Champions League 17 anni dopo l’ultima volta. Non aveva i campioni dell’avversario, il Bayern Monaco, ma compensava i limiti individuali con uno stile di gioco rivoluzionario. Quella squadra manteneva lo spirito di calcio offensivo che era prerogativa dell’epoca, ma ne ribaltava la prospettiva: per attaccare e comandare il gioco non c’era bisogno di controllare il pallone, come per esempio insegnavano le squadre di Guardiola. Si poteva invece attaccare anche attraverso la fase difensiva, difendendo non vicino alla propria porta ma vicino a quella avversaria.
“L’attacco è la miglior difesa”, dice un motto ormai senza autore, e il calcio tedesco invece diceva che “la difesa è il miglior attacco”.
In un’epoca calcistica che sembrava promuovere il controllo attraverso la tecnica e il possesso di palla, Klopp e la scuola tedesca preferivano il pressing, il caos e la ferocia fisica. Per giocare l’iper- razionale gioco di posizione di matrice catalano-olandese, bisognava avere un certo livello tecnico, ma il calcio poteva essere anche disordine, assenza di controllo, agonismo e duelli fisici. La tecnica del resto costa cara nel mercato, mentre le capacità atletiche e la disciplina tattica possono essere alla portata di tutti. Non si trattava insomma soltanto di fare pressing.
Sulle bocche degli amanti del calcio comincia a circolare una nuova parola d’ordine esoterica: “gegenpressing”. Si pressa la costruzione del gioco degli avversari, ma soprattutto si cerca di riconquistare palla subito dopo averla persa: è questo il gegenpressing. Il calcio si evolve per trovare nuove soluzioni a nuovi problemi. José Mourinho aveva scoperto l’importanza delle transizioni: i primi secondi dopo aver riconquistato palla sono i più importanti per attaccare; allora il gioco di Guardiola, col suo possesso palla liquido, cercava di evitare le transizioni.
Ora arrivavano Klopp e la scuola tedesca, che invece sembrava provocare le transizioni: immaginare un calcio caotico fatto solo di transizioni, palle perse e recuperate di continuo. Jürgen Klopp si lanciava in proclami eversivi alla Erasmo da Rotterdam: “Il miglior playmaker è il gegenpressing”; “il mio calcio è heavy metal”. Si arriva a teorizzare di sbagliare appositamente i passaggi per recuperare palla più in alto. Il Bayern Monaco di Jupp Heynckes avrebbe vinto quella finale ricordando l’importanza della qualità tecnica e dell’esperienza in una finale europea, eppure il Borussia Dortmund e il suo calcio sembravano il futuro. Anche l’Olanda di Cruyff aveva perso la finale dei Mondiali, ma aveva cambiato il calcio per sempre.
Il Borussia Dortmund del resto non era un caso isolato. Un anno dopo, la Germania avrebbe vinto i Campionati del mondo. In Austria, Ralf Rangnick profetizzava forme di pressing ancora più estreme. Il Rinascimento tedesco era arrivato e sembrava finita l’epoca della sensualità tecnica spagnola, e dei centrocampisti tecnici col tocco di palla molecolare (Barney Ronay sul Guardian li definiva “piccoli gnomi dal tocco di velcro”). Ora sarebbe arrivata un’epoca oscura e vitale di furia atletica, pressing e positivismo.
L’approccio tedesco è soprattutto scientifico, basato sui dati e sull’idea che tutto può essere misurabile attraverso la professionalizzazione. Nasce la figura del laptop trainer, il nerd che non ha mai giocato a calcio ad alti livelli ma può allenare attraverso lo studio, la preparazione e le idee brillanti.
In realtà nel calcio nessuna idea finisce davvero e tutto ritorna e può essere riciclato. I due paradigmi, quello del gioco di posizione e quello sul gegenpressing, si sono affiancati l’uno all’altro, e hanno rappresentato le due grandi direttrici del calcio contemporaneo.
La rivalità tattica dell’ultimo decennio è stata, appunto, quella tra Klopp e Guardiola, che poi si trasferì appunto in Germania per confrontarsi con la scuola tedesca. In questa guerra di religione si è però profilato un terzo incomodo: il Real Madrid del duo Ancelotti- Zidane. Ai due approcci scientifici – tedesco e catalano – il Madrid contrappone un approccio naturalista. Al centro del calcio non c’è l’organizzazione tattica, ma la qualità tecnica. Non si pianifica il modo di attaccare di una squadra, ma solo la sua difesa. Sono i calciatori - con la loro tecnica, il loro carisma, la loro intelligenza - a dover risolvere i problemi che le situazioni di gioco gli pongono dinanzi.
L’anno dopo la vittoria del Bayern, dieci anni fa, è il Real Madrid di Ancelotti ad alzare la maledetta decima Champions League, e con quella avvia un ciclo di successi europei senza precedenti. Un regno proseguito dall’ex giocatore e assistente di Ancelotti, Zinedine Zidane, e ripreso in mano da Ancelotti stesso. Un impero su cui non tramonta mai il sole e in cui gli allenatori si alternano come imperatori per legge divina. Sono passati altri dieci anni e sembriamo essere arrivati a un altro punto di svolta. Il Real Madrid proverà a conquistare la quindicesima Champions League della sua storia, e il Borussia Dortmund che si trova davanti è uguale e diverso da quello di Klopp.
È sempre una squadra molto organizzata senza palla, con grandi qualità fisiche e giocatori giovani e talentuosi. È ancora la squadra della passione del muro giallo, degli allenatori innovativi, verso cui è impossibile non provare empatia. Figuriamoci se poi gioca da underdog una delle finali più sbilanciate degli ultimi anni. Al contempo, è una versione minore del Borussia Dortmund: meno di rottura, meno nobile.
Non è il Borussia Dortmund d’argento vivo di Klopp, ma nemmeno quello del possesso palla di Tuchel. È una squadra che è arrivata in finale rimboccandosi le maniche: con attenzione e disciplina difensiva, battendo avversari più forti e quotati in modo talvolta inspiegabile. Ha beneficiato del risorgimento dell’incompreso Jadon Sancho e dei tanti buoni giocatori in cerca d’autore (Brandt, Emre Can, Sabitzer). Se il Borussia di Klopp schierava in attacco l’ultimo prototipo fiammante del ruolo – Robert Lewandowski – questo schiera il centravanti senza un dente, Niklas Fullkrug.
I residui di quel passato sono Marco Reus e Mats Hummels. Il primo è alla sua ultima stagione al Borussia; i tifosi gli hanno già dato l’addio e lui li ha ringraziati offrendo una birra a tutto il muro giallo. Hummels invece è ancora l’elegante comandante della difesa, il migliore in campo nella sofferta semifinale contro il ricco PSG. Mentre loro erano in campo, dodici anni fa, quando il Borussia Dortmund vinceva la sua ultima Bundesliga, Edin Terzic, il loro allenatore, era in mezzo al muro giallo. Stanno circolando molto le sue foto in questi giorni.
Un anno fa Terzic era sotto il settore, la mano sul cuore, a chiedere scusa per la Bundesliga persa all’ultima giornata. Sull’onda lunga di quella delusione la squadra ha stentato all’inizio di questa stagione, e Terzic è stato più volte vicino all’esonero: a settembre, a novembre, a dicembre. Era arrivato come soluzione temporanea dopo l’esonero di Rose e se ne stava andando in modo anonimo. Dopo aver salvato la panchina, e aver condotto questa insperata ed epica campagna in Champions, è oggi considerato uno dei giovani allenatori più interessanti al mondo.
La ricetta per giocarsela contro il Real Madrid è la stessa con cui Terzic ha battuto il PSG: una partita difensiva ai limiti della perfezione. Il gegenpressing di Klopp trasformato in arma di contenimento più che di riconquista alta del pallone. Un modo per rallentare la pressione attorno alla propria area, per poi scegliere i momenti in cui ripartire, affidandosi alla velocità travolgente di Karim Adeyemi e ai dribbling di Sancho (nell’andata contro il PSG il più alto numero di dribbling di un giocatore in un’eliminatoria di Champions).
L’eterno Real Madrid ha già dimostrato di saper usare la tecnica e l’intelligenza dei suoi giocatori per venire a capo di qualsiasi tipo di avversario, anche se ha sofferto un avversario simile al Dortmund come il Lipsia. Da quella partita i gialloneri devono imparare una lezione: Vinicius Jr., Bellingham e Rodrygo lanciati nello spazio sono praticamente immarcabili. Sulla destra il norvegese Ryerson sarà chiamato a un lavoro di contenimento improbo, e dovrà per forza essere aiutato dai rientri di Sancho e Sabitzer. Una sola ripartenza ben fatta del Real può risultare fatale per il Borussia Dortmund.
Attaccare troppo potrebbe non convenire. A innescare i talenti offensivi del Madrid dalla cabina di regia, come sempre, ci sarà la leggenda Toni Kroos. Ha già annunciato il suo addio e il Bernabeu gli ha già tributato il suo saluto. La finale di Champions League è il degno ultimo palcoscenico di uno dei grandi protagonisti dell’ultimo grande ciclo del Real Madrid. Il totem al centro del campo durante le notti europee. Qualsiasi pressing, qualsiasi momento di ansia e difficoltà poteva essere superato affidando il pallone a Kroos.
Nell’epoca della muscolarizzazione del calcio, Kroos ha incarnato l’eterna efficacia della calma e della tecnica. La fiducia in un’ideale supremo di calcio – per cui basta saper stoppare e passare il pallone, e giocare con la testa – per battere i giocatori più forti e più veloci. E più si allungava la sua carriera, e quella del suo compagno Modric, più la loro classe sembrava esprimere una qualità più pura e inscalfibile.
Kroos è stato l’abito classico, la sonata di Chopin che non possono passare mai di moda. È la sua calma in mezzo al campo che rappresenta bene il senso di sicurezza trasmesso dal Real Madrid in questo tipo di partite. Di fronte al Borussia Dortmund la sfida sembra proibitiva, ma è il grande conflitto archetipico del calcio europeo: Spagna contro Germania, tecnica contro forza fisica, aristocrazia calcistica contro popolo. Non c’è competizione più elitaria della Champions League, ma non ce n’è una altrettanto imprevedibile.