Si sono entrambe qualificate per la prima volta agli ottavi della Coppa d’Asia. Nei playoff per giocare Euro2024 l’Ucraina potrebbe affrontare Israele
“Dobbiamo ricordare al mondo che la Palestina esiste”. Con queste parole Makram Daboub, allenatore tunisino della Nazionale palestinese, si era presentato alla stampa prima dell’esordio in Coppa d’Asia contro l’Iran, gara poi persa 4-1. Sembra una dichiarazione strana, quasi naif, visto che da quasi quattro mesi non si parla d’altro che di Gaza, Palestina, Israele e Medio Oriente.
Il messaggio di Daboud era però più profondo, e riguardava l’esistenza stessa della Palestina intesa come luogo fisico, come nazione, come simbolo di un popolo che è abituato ad avere poco e oggi più che mai è a tanto così dal non avere nulla. Fino al 1998 non c’era nemmeno una vera Nazionale di calcio, o meglio c’era, ma non era riconosciuta dalla Fifa. Giocava partite che non esistevano su campi che ora non esistono più, distrutti dai missili degli israeliani, che vedono nei terreni di gioco – piatti, lunghi e larghi – basi perfette per gli attacchi di Hamas, e quindi da eliminare, distruggere.
Una maglia della Nazionale della Palestina
Il giorno di Natale è uscito un video girato proprio all’interno di uno stadio palestinese, lo Yarmouk, in cui i militari israeliani costringono alcune persone, bambini compresi, a spogliarsi e mettersi in fila. A centrocampo non ci sono palloni, ma carri armati, in porta una bandiera israeliana e in mezzo quel che ha tutta l’aria di un campo di concentramento improvvisato.
Il calcio e la guerra si somigliano da sempre, non a caso il linguaggio del pallone sembra (anche se ora le cose stanno un po’ cambiando) preso di forza da un manuale militare: le cannonate, il bomber, il panzer, il missile, l’invasione di campo, il fronte d’attacco, la difesa strenua, l’assedio…
C’è anche una “Guerra del football”, certificata, quella tra El Salvador e Honduras, che non è nata ovviamente per un fuorigioco, ma per altri motivi e interessi, come sempre, eppure è rimasta nota con quel nome anche perché le partite tra le due Nazionali centroamericane per le qualificazioni al Mondiale messicano del 1970 somigliarono a vere e proprie battaglie, sia in campo che sugli spalti, con tanto di morti, feriti, assalti a hotel dove alloggiavano le squadre e bassezze di ogni livello. La guerra vera durò appena cinque giorni, non molto più del tempo per giocare le tre partite che mandarono poi al Mondiale, dopo un drammatico supplementare nello spareggio in campo neutro, El Salvador.
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La Nazionale palestinese in Coppa d’Asia
Il caso volle che dodici anni più tardi fossero proprio El Salvador e Honduras le due nazionali del Centronordamerica a qualificarsi per il Mondiale del 1982 in Spagna. La guerra nel frattempo era finita, ma il guardarsi in cagnesco no.
Quel che oggi rende a tutti gli effetti la Palestina una Nazionale di guerra è il suo status particolare, di nazione-non nazione, di caos e instabilità permanente acuito dal conflitto in corso. Parliamo di numeri: i convocati per la Coppa d’Asia sono 26; stando ai numeri diffusi dalla Pfa, la Federcalcio palestinese, sarebbero 55 i calciatori palestinesi uccisi dal 7 ottobre (giorno dell’attacco di Hamas a Israele) a oggi, più del doppio dei convocati. Il commentatore palestinese Khalil Jadallah, intervistato da Al Jazeera, è riuscito perfino a stilare una Top XI della morte, una Nazionale alternativa che però non può più giocare. Tra loro anche Ahmed Daraghmeh, giocatore del Thagafi Tulkarem ucciso negli scontri in Cisgiordania, diventato perfino un martire da Hamas, che nel giorno del funerale lo ha avvolto nella sua bandiera.
Lo stesso medico della Nazionale, che ha provato a uscire da Gaza in auto per raggiungere la squadra, è stato aggredito da un gruppo di coloni israeliani ed è dovuto rimanere nella Striscia. È vivo, ed è già qualcosa. La stessa Nazionale ha rischiato di non partire per il Qatar, dove si disputa la Coppa d’Asia. Solo l’intervento del principe di Giordania ha permesso loro di esserci in quel modo tuttavia provvisorio in cui si è palestinesi.
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Il gol qualificazione della Siria
La Palestina ha infine – per dirla con le parole del Ct Daboud – “fatto vedere che esiste” nonostante le speranze della vigilia fossero nulle e i quattro gol presi dall’Iran un triste presagio. Invece la Nazionale che non c’è ha strappato un insperato pareggio con gli Emirati Arabi Uniti e poi ha battuto 3-0 Hong Kong, classificandosi al terzo posto del suo girone e qualificandosi così – come migliore terza – agli ottavi della Coppa d’Asia per la prima volta. A fine partita il capitano Al Battat piangeva, il centrocampista Kharoub e il difensore Termanini esultavano petto contro petto e l’altro centrale Saleh indicava il cielo. Si piange per chi non c’è più e per chi c’è – magari a casa, non davanti alla tv, ma sotto le bombe –, ma chissà per quanto. Sempre il Ct Daboub, che si è fatto portavoce di questa mescolanza di gioia e dolore palestinese, ricordando come i giocatori controllino compulsivamente i cellulari fino a poco prima di scendere in campo, non per la smania da social, ma “per avere notizie, per sapere se tutti a casa stanno bene”.
Ad accompagnare la Palestina al tabellone degli ottavi (dove lunedì affronterà i padroni di casa del Qatar) c’è un’altra Nazionale di guerra, la Siria, che mercoledì sfiderà proprio l’Iran, primo nel girone dei palestinesi. Anche per loro è la prima volta in un turno a eliminazione diretta in Coppa d’Asia. Ma nel 2019 sfiorarono un’impresa ancor più grande quando arrivarono allo spareggio per accedere ai playoff del Mondiale 2018 contro l’Australia: a negar loro la possibilità di giocarsi il pass definitivo contro Honduras, Perù e Nuova Zelanda fu un palo colpito su punizione nell’ultimo minuto di recupero dei tempi supplementari. In quei giorni, il calcio fermò addirittura la guerra, con i megaschermi messi nelle stesse piazze dove prima e dopo cadevano - e in alcuni casi cadono ancora oggi – bombe.
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I tifosi della Palestina sugli spalti
La prima cavalcata di una Nazionale di guerra mediorientale fu tuttavia quella dell’Iraq alle Olimpiadi di Atene 2004, quando una squadra senza soldi e con giocatori arrivati da ogni parte del mondo riuscì a vincere il proprio girone per fermarsi solo in semifinale contro il Paraguay. La finale per il terzo posto, che assegnava la medaglia di bronzo, fu decisa da Alberto Gilardino, autore dell’unica rete della partita dell’Italia. In quella squadra che faticò a venire a capo degli iracheni giocavano cinque futuri campioni del mondo: Andrea Pirlo, Daniele De Rossi, Marco Amelia, Andrea Barzagli e lo stesso Gilardino (e un futuro campione d’Europa, Giorgio Chiellini).
Altra Nazionali di guerra fu, sempre nel calcio, la Liberia di George Weah, all’epoca centravanti e oggi presidente del Paese, che nel 1996 si qualificò al a Coppa d’Africa nonostante la guerra civile in corso.
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George Weah con la maglia della Liberia
Storie simili si ritrovano anche in altri sport: nel 2022 l’Afghanistan, in pieno caos, sfiorò le semifinali della Coppa del Mondo di cricket offrendo alcune tra le prestazioni più esaltanti del torneo, mentre la Nazionale di basket del Sud Sudan, il Paese più giovane (fondato nel 2011) e povero del mondo (appena uscito da una guerra civile e confinante con il Sudan con una guerra civile in corso) ha staccato il pass per le prossime Olimpiadi di Parigi.
A marzo invece si giocherà per gli ultimi posti disponibili a Euro2024. L’urna di Nyon ha messo nello stesso percorso dei playoff Ucraina e Israele, che se dovessero battere in semifinale Bosnia e Islanda si affronterebbero in una finale dai mille significati: una delle due, in quel caso, parteciperebbe agli Europei di calcio.
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Italia-Iraq, finale per la medaglia di bronzo ad Atene 2004