In un libro di Carles Viñas, curiosità e paradossi della diffusione del gioco del calcio nell'Unione Sovietica fra le due Guerre
Da un lato, l’entusiasmo di Antonio Gramsci: “Il calcio è il regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta”. Dall’altro, la diffidenza di Maksim Gor’kij: “Lo sport borghese ha un unico chiaro proposito: fare in modo che gli uomini siano più stupidi di quello che sono. Negli Stati borghesi, lo sport viene usato per produrre cannoni per le guerre imperialiste”. Oscilla tra queste inclinazioni l’approccio prima russo e poi sovietico al calcio, sin dai primi contatti con il morbo (approdato al tramonto della Russia zarista via nave, come le malattie portate dai colonizzatori sull’inesplorato suolo americano). Contrastarne la diffusione oppure prenderne atto, sfruttandola per consolidare il socialismo e forgiare l’uomo nuovo, utopia di ogni regime totalitario?
L’arte del calcio sovietico, dello storico spagnolo Carles Viñas (Il Saggiatore), è un’attenta ricostruzione delle tappe che segneranno il successo della seconda opzione. Un saggio che non racconta l’eleganza e i riflessi felini del leggendario portiere Jašin, l’inarrivabile talento di Strel’cov, l’atletismo di Blochin e i perfetti meccanismi della Dinamo Kiev del colonnello Lobanovs’kyi, ma la fase pionieristica, contraddittoria e confusa, in cui la stampa locale, dando voce all’iniziale perplessità delle élite russe, definisce il calcio “un gioco strano e rozzo” o “un gioco inglese con una palla grande, in genere giocato da persone con muscoli solidi e gambe forti: una persona debole sarebbe un disastro e potrebbe soltanto fare da spettatore”. Un passatempo che, prima della Rivoluzione, gli ingegneri inglesi impiegati nella nascente industria russa provano a imporre nelle fabbriche, scontrandosi con l’ottusità della nomenklatura zarista. Alla richiesta di spiegare le regole del nuovo gioco, un funzionario esclama con poca lungimiranza: “E la gente si riunisce per vedere questa roba? Che sciocchezza”, salvo poi cambiare idea (anche gli apparatčik tengono famiglia) vedendo una foto che ritrae Guglielmo di Prussia, cugino dello zar, durante una partita di calcio coi compagni ufficiali in un campo di Tempelhof (Berlino). Gli inglesi, del resto, preferiscono fare da soli creando squadre dai nomi sobri, modesti e facilmente memorizzabili, come Special Circle of Sportsmen for Playing Football and Lawn Tennis of the Superior Society of the Englis Colony.
Dal canto loro, le autorità zariste contrastano la partecipazione degli operai russi, temendo che l’attività sportiva fornisca una copertura adatta a dissimulare attività sovversive. Avversione condivisa, per una curiosa eterogenesi dei fini, dalle organizzazioni sindacali, che vedono nel fascino esercitato dal calcio sui lavoratori un fenomeno deviazionista, una distrazione pericolosa per lo sviluppo di una coscienza politica. Visione critica che coincide con quella di buona parte della sinistra internazionale: lo dimostra il proclama del Partito laburista britannico (“corriamo il rischio di produrre una razza di lavoratori che non facciano altro se non obbedire ai padroni e pensare al calcio”). Anche la stampa anarchica del primo ’900 crede che il calcio anestetizzi il proletariato e depoliticizzi gli operai: Viñas riporta un indignato editoriale del quotidiano libertario argentino La protesta contro “la perniciosa idiotizzazione per mezzo del continuo tirare calci a un oggetto rotondo”, in un gioco non meno dannoso della religione: “Messa e pallone, l’oppio peggiore dei popoli”.
Le cose cambieranno quando, in seguito a clamorose sconfitte militari, si inizierà a vedere nello sport un mezzo per temprare il fisico, formare atleti perché siano soldati e, osserva James Riordan in Sport in Soviet Society, “generare un atteggiamento civico in grado di produrre uomini combattenti fisicamente e moralmente idonei”. Mutamento di prospettiva dovuto anche all’autorevole opinione di Lenin, appassionato di scacchi, che ritiene la pratica sportiva, apprezzata nei periodi di prigione ed esilio come stimolo mentale, utile a formare l’individuo integrale della società comunista e ad avvicinare le donne all’attività pubblica, raggiungendo in questo modo l’uguaglianza. Più pragmaticamente, Trockij decide di incentivare lo sport per le necessità belliche del nuovo Stato socialista, aumentando la combattività dei soldati dell’Armata Rossa, in contraddizione con quanto asserito nel 1925 in Dove va la Gran Bretagna? (“Le convenzioni sociali, la Chiesa, la stampa e lo sport avevano limitato e soppresso le possibilità di arricchimento culturale a disposizione della classe lavoratrice sotto il capitalismo”).
Altra curiosità riportata da Viñas, gli ingenui slogan escogitati per promuovere, insieme all’esercizio fisico, poco praticate abitudini igieniche: “Aiuta il Paese con uno spazzolino da denti”, “Aiuta il Paese lavandoti con acqua fredda”. Non mancano però gli oppositori, a cui dà voce il Proletkult, l’Organizzazione Culturale-educativa Proletaria, che intende depurare l’arte, la cultura e ogni altro modo di impiegare il tempo libero da tutte le tracce della cultura borghese, come la competitività, valore che riflette l’essenza capitalista ed è dunque estraneo al socialismo. Intenzione che, oltre alla censura della boxe, del sollevamento pesi e della ginnastica, “attività individuali irrazionali e pericolose” che privilegiano la rivalità alla salute, spinge questi zelanti riformatori a inventare nuove discipline dai nomi ideologicamente suggestivi (Riscatto dei fascisti, Agitatori, Aiutante dei proletari), oltre a proporre una modifica delle regole del calcio per eliminare “la radice del male provocato dall’ansia di vittoria a qualsiasi costo, fatto che degrada lo sport a uno spettacolo sanguinoso”.
Ecco allora un parto esemplare dell’eterna follia di chi pretende di migliorare il mondo con argomenti che non ammettono la minima critica e non infondono alcuna convinzione: dividere il terreno di gioco in riquadri, ognuno occupato da un giocatore che non può abbandonare il proprio spazio ed è obbligato a passare la palla in meno di cinque secondi onde evitare il contatto fisico e, di conseguenza, qualsiasi scontro violento. Un tantino eccessiva, ma pienamente in linea con i tempi, la punizione inflitta ai promotori di queste assurdità: prima vengono espulsi dalle organizzazioni sportive e poi vengono arrestati, condannati, imprigionati e giustiziati. Il calcio così com’è, pulsioni individualiste comprese, è infatti diventato uno sport di massa, che l’Unione Sovietica, vinte le ultime resistenze interne, usa per accreditare all’estero se stessa e la propria forma di Stato.
Con risultati non sempre in linea con le aspettative, tra un’ansia da prestazione che porta i giocatori a strafare e una recrudescenza della mai sopita passione per la vodka, che produce ubriacature solenni, risse negli alberghi e il biasimo dei compagni stranieri: neanche la ferrea disciplina, i controlli asfissianti e la responsabilità di rendere visibile la supremazia del socialismo sul capitalismo salvano dunque l’homo sovieticus dall’essere, in fin dei conti, un povero disgraziato come tutti gli altri.