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Stefan Küng, Mel Gibson e la bua dei calciatori

Al contrario di quanto succede in altri sport, è difficile vedere un ciclista fare sceneggiate quando si fa male

23 settembre 2023
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Mercoledì abbiamo visto in televisione Stefan Küng, impegnato nella crono valida per il titolo europeo di ciclismo, cadere rovinosamente dopo aver sbattuto contro le transenne. Ma soprattutto – increduli e ammirati – l’abbiamo visto rialzarsi, dare una sistematina al casco demolito, tornare in sella e, benché sanguinasse più del Cristo di Mel Gibson, rimettersi a spingere per concludere la sua prova all’11° posto.

Stando così le cose – ci siamo detti – non si sarà fatto nulla di grave. Grande spavento per noi ma solo qualche escoriazione per lui: del resto, basta un taglietto sul sopracciglio per veder sgorgare sangue come in una tonnara. E invece, il giorno seguente si è saputo che il cronoman nel ruzzolone si è procurato una commozione cerebrale e la bellezza di due fratture, allo zigomo e alla mano. Eppure, senza fare una piega, in quelle condizioni il turgoviese si era rimesso a pedalare, perché quello era il suo dovere e il suo desiderio.

Non è la prima volta che vediamo un ciclista realizzare exploit di questo tenore: il caso più famoso, indietro nel tempo, è quello di Fiorenzo Magni, che corse una crono in salita al Giro del ’56 con una spalla fratturata. Per non caricare troppo l’arto fuori uso, legò al manubrio l’estremità di una camera d’aria e strinse l’altra fra i denti per l’intera durata della tappa. Roba che si vede solo in pochissimi sport. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli atleti danno forfait – o addirittura decidono di non scendere in campo – per molto meno.

Il pensiero corre facilmente al calcio, dove basta davvero poco – magari un mal di pancia – per indurre i medici a sconsigliare l’impiego di un giocatore. Senza contare le vergognose sceneggiate, con pianti a dirotto, per via di calcetti minimi o dopo clamorose simulazioni: i calciatori hanno la bua e stanno a terra come li avesse investiti il TiLo finché l’arbitro non ferma il gioco (o fino a quando un compagno non segna un gol, come capitò al guitto Ciro Immobile in maglia azzurra: dopo essersi rotolato come un tarantolato in attesa dell’intervento di Henri Dunant, resuscitò di colpo per andare a festeggiare il sodale goleador).

Qualcuno, punto nell’orgoglio, mi risponderà che prendere a modello i ciclisti – noti imbroglioni – sarebbe l’ultima cosa da fare. In effetti, il mondo del pedale ha fatto di tutto, nei decenni scorsi, per procurarsi una cattiva fama: il doping non è certo una nota di merito, però va detto che il peggio pare ormai passato. E comunque, se proprio vogliamo parlare di bari, non è che il pianeta calcio ne sia del tutto privo. Oltre alle sostanze proibite, nell’ambiente del pallone girano pure altre forme di inganno, perpetrate spesso alla luce del sole. Senza scomodare la buonanima di Diego e la sua celebre smanacciata contro l’Inghilterra, tutti ricordiamo il clamoroso doppio tocco di mano con cui nel 2009 Titi Henry scippò all’Irlanda di Trapattoni una sacrosanta qualificazione al Mondiale, torneo a cui prese parte invece la Francia, a quei tempi redditizio veicolo pubblicitario per la marca delle tre strisce, da sempre collusa con la Fifa. In quel caso, più che di Mano de Dios, si trattò di Mano de Adidas.

Qualche difetto, ovvio, ce l’hanno pure altre discipline oltre al calcio, che resta malgrado tutto un gioco meraviglioso. Di certi sport un po’ aristocratici, ad esempio, non sopporto la sacralità che li avvolge. Nel golf tutti si zittiscono affinché il campione di turno, per infilare un putt da una distanza di 90 centimetri, possa trovare la giusta concentrazione, manco stesse operando a cuore aperto. Idem nel tennis, prima di un servizio: cala un silenzio come se alla battuta ci fosse Benedetti Michelangeli. Ogni famiglia ha le sue abitudini, per carità, e così risulta del tutto normale che nelle partite di basket, quando gli ospiti vanno in lunetta per battere un tiro libero, si scatena ogni volta un pandemonio di fischi e ululati. Per caso un cestista, magari un ragazzo di 19 anni, non ha bisogno di concentrarsi? Il poveraccio, semplicemente, è costretto a subire la bolgia, e se la sbatte sul ferro si becca pure del somaro. Ma, in fondo, è anche lì che sta il bello.