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Il meraviglioso caos che regna nel calcio

Troppo spesso si ha la tendenza a spiegare il gioco del pallone con facili teorie basate sull'adozione di un modulo tattico invece di un altro

15 luglio 2024
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Si è chiusa da poche ore una pantagruelica magnata calcistica durata un mese, durante il quale si è approfittato di ogni occasione per parlare, appunto, di pallone. Di grande spazio – fin troppo – hanno goduto le discussioni, specie in tv e sui social, attorno a scelte tattiche e moduli, da molti considerati l’essenza stessa del gioco, quando invece, secondo il mio modesto e un po’ provocatorio parere, risultano parecchio sopravvalutati.

In uno sport come il football – giocato coi piedi e su superfici enormi – sarebbe eccessivamente ottimistico pensare di poter controllare ogni cosa tramite semplici dettami riconducibili – secondo chiacchiere ed elucubrazioni da studio televisivo – a qualche preconfezionata serie di numeri a tre o quattro cifre (4-3-3, 3-5-2, 4-3-1-2 ecc.) È ovvio che un allenatore, in questo senso, un’idea piuttosto precisa debba pur possederla, ci mancherebbe, ma immaginare che una partita sia stata persa (o vinta) unicamente a causa dell’adozione di uno o dell’altro sistema è qualcosa di piuttosto ingenuo.

Troppo facilmente si tende a dimenticare che le partite di calcio – a causa della natura medesima del gioco – vengono spesso decise da un colpo di classe di un singolo giocatore o da una miriade di altri fattori spesso del tutto aleatori. Tattica e schemi sono imprescindibili e determinanti ad esempio nel basket, che viene giocato con le mani (appendici assai più vicine al cervello), al chiuso e su campi ovunque identici. Il football, invece, sottostà a mille bizzarre variabili: il sole negli occhi che penalizza il portiere della squadra che perde il sorteggio, il vento che cambia traiettoria al pallone, la pioggia che condiziona i rimbalzi della sfera, le dimensioni del praticabile che variano da uno stadio all’altro, la differenza fra l’erba naturale e quella sintetica, e naturalmente l’estrema imprevedibilità di rimpalli e deviazioni, da cui possono scaturire gli autogol.

In questo regno del caos, l’unica possibilità di attuare veri schemi si presenta sui calci di punizione o sui tiri dalla bandierina, ma pure qui nulla è paragonabile a ciò che succede nella pallacanestro: basti pensare a quanti corner vengono battuti male, spesso nemmeno in grado prender quota e raggiungere il più vicino lato corto dell’area piccola. È dunque facile comprendere come tutto quanto, alla fine, dipenda dal caso o dal classico colpo di deretano, a dispetto di tutti i soloni che – ben remunerati – si riempiono la bocca con teorie pronte ad essere facilmente sbugiardate ma spacciate come fossero le Tavole della legge.

Non sto dicendo che l’alto grado di aleatorietà tolga fascino al calcio, anzi: forse il successo di questo sport risiede proprio in questa magica imprevedibilità, in questa estrema libertà che concede al fato, specie in un mondo come quello odierno, in cui tutto è programmato nei minimi dettagli e in cui ormai quasi nulla accade per semplice casualità.

Tutto ciò non significa, ovviamente, che gli allenatori siano inutili: sono infatti indispensabili – più che per il credo tattico – in altri ambiti, ad esempio per assicurare il buon funzionamento del gruppo. Anche perché, se a contare davvero fossero moduli e tattiche, non si capirebbe come mai certi giocatori debbano costare solo 1 milione e altri invece la bellezza di 150.

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