Viaggio dentro il celebre derby della Lanterna, che la prossima stagione per un capriccio del destino per il secondo anno di fila non si giocherà
Sullo scooter. Lui con il casco della Sampdoria. Lei con il casco del Genoa. Arrivano insieme sul piazzale dello stadio. Parcheggiano, scendono e si salutano veloci con un bacio appena accennato. Lui va a destra verso la gradinata Sud. Lei a sinistra, verso la Nord. Si amavano prima e lo faranno anche dopo. Ma per quei 90 maledettissimi minuti, no. Si azzera tutto. Non c’è amore, non c’è amicizia. Solo una sana ma fortissima rivalità. E non provate a dire che è solo una partita, che in fondo è solo un gioco. Non azzardatevi. Il derby a Genova è così. E molto di più.
Genoa contro Sampdoria ma soprattutto genoani contro sampdoriani. Persone abituate a convivere tutto l’anno ma, da sempre, divise. Ci sono i blucerchiati e ci sono i rossoblù. Parenti e amici e coppie che condividono tutto. Tranne il calcio. O di qua o di là, in una sfida che va ben oltre la singola partita e il semplice campanilismo. Vive tutto l’anno. Nelle piazze, nei bar, negli uffici e nelle case. Sfottò e ironie, costanti prese in giro e insofferenze reciproche che in quei 90 minuti trovano il culmine.
Un clima unico, un appuntamento che i tifosi cerchiano di rosso sul calendario. Ma che quest’anno è mancato e che mancherà anche l’anno prossimo. Ma solo sul campo perché in una città abituata a dividersi più per il calcio che per la politica, è più vivo che mai. Anche perché il dio del calcio sembra aver scritto un copione fatto apposta per mettere le due tifoserie una contro l’altra in una sfida in stile Ok Corral, a prescindere dal calcio, quello vero.
Succede che lo scorso anno Sampdoria e Genoa se la passino maluccio sul campo. I rossoblù hanno appena cambiato proprietà, il fondo americano 777 partners ha tante idee per il futuro ma è subentrato con troppa presunzione, rivoluzionando una squadra in difficoltà e affidandola a un tecnico tedesco, Blessin, che non conosce neanche l’italiano.
La Sampdoria è di fatto in amministrazione controllata. Il suo proprietario Massimo Ferrero è da poco uscito di prigione dopo le accuse di bancarotta che hanno segnato il suo destino e quello del club, imprigionato in un trust a garanzia dei debiti delle sue società e guidato da Marco Lanna, bandiera dello scudetto del 1991, come presidente pro tempore. Entrambe, inevitabilmente, lottano per restare in serie A. E il 30 aprile arriva un derby da ultima spiaggia. Chi perde ha un piede e mezzo in serie B.
La tensione in città è al massimo, si respira, si prova malamente a fare finta di nulla. Sugli spalti è spettacolo con coreografie in stile più sudamericano che italiano anche per esorcizzare la paura. Sul campo la Samp controlla, passa in vantaggio con Sabiri e poi amministra. Fino al minuto 96. Ingenuità di Ferrari che tocca con la mano in area. Rigore. Il Ferraris ammutolisce. Il capitano del Genoa Criscito prende la palla, va sul dischetto. Calcia. Il portiere della Samp Audero para. È apoteosi e psicodramma. Quella parata, paradiso per la Samp e inferno per il Genoa, diventa emblema. C’è chi la trasforma in una gigantografia esposta nelle principali strade della città, chi in un santino da portare nel portafoglio, chi in un adesivo. E la vita, sportivamente, per i genoani finisce. Non tanto per la retrocessione ma perché per mesi e mesi quando qualcuno di fede rossoblù prova a parlare di calcio, qualcun altro di fede blucerchiata ripete quelle 6 lettere che spengono dialogo, entusiasmo e fanno abbassare lo sguardo: A U D E R O.
Un massacro. Che compensa con gli interessi quel derby dell’8 maggio 2011, quando il carneade argentino Boselli al minuto 97 sancì di fatto la retrocessione della Samp diventando l’eroe rossoblù con il titolo di «retrocessore» e uno spauracchio sbandierato per anni con orgoglio e perfidia. Funziona così. «Non c’è rivincita», sostenevano i genoani. C’è stata, pure più gustosa. Ma il calcio spesso è metafora di vita e basta aspettare per avere rivalsa.
Il fiume di Genova sulla riva del quale sedersi e aspettare il cadavere dell’avversario (figurato, s’intende, è sempre calcio alla fine) si chiama Bisagno, e le sue sponde sono state parecchio affollate quest’anno, in cui è cambiato tutto. O quasi. Gli americani del Genoa hanno fatto le cose per bene. La retrocessione in serie B è stata assorbita allestendo una squadra forte che dopo il decisivo cambio di allenatore, il campione del mondo Gilardino per l’ancora confuso Blessin, ha conquistato con tre giornate d’anticipo la promozione in serie A restituendo entusiasmo a una piazza umiliata e offesa da quanto successo solo pochi mesi prima. In un angolo del cuore, sentir nominare Audero faceva ancora male ma si è andati avanti, cercando di superarla. Grazie ai risultati ma, forse, soprattutto guardando quello che stava succedendo in casa di quegli altri.
Perché ciò che i genoani meno tollerano non è tanto che abbiano dovuto affrontare difficoltà di ogni tipo nella loro storia recente, che non vincano un trofeo dal 1924, che abbiano dovuto assistere da spettatori all’epopea della Sampdoria che negli anni ’90 ha vinto quasi tutto sotto la guida di Paolo Mantovani, con Boskov in panchina e Vialli e Mancini in campo. No. Quello che proprio rode dentro ai genoani è che i cugini della Samp cadano sempre in piedi, nonostante difficoltà più o meno simili. Un po’ come Gastone con Paperino.
Quest’anno sembrava quello giusto per godersela senza filtri, senza ma, senza se. Senza colpi di coda (o parate) in pieno recupero. E così guardavano dall’altra parte con la Sampdoria a pezzi. Senza proprietà, sommersa dai debiti e con una società costretta a fare i salti mortali per l’ordinaria amministrazione. Rosa ridotta all’osso con un calciomercato al risparmio e i migliori giocatori ceduti ma anche dipendenti, non solo calciatori, senza stipendi.
La retrocessione era di fatto solo una formalità. In un anno ancor più funesto per i colori blucerchiati perché a gennaio scompare Gianluca Vialli. Non è stato solo il calciatore simbolo della Samp capace di vincere lo storico scudetto del 1991. Vialli della Samp era e rimane icona, legato indissolubilmente a quei colori. Non c’è sampdoriano che non si commuova pensando a lui, osannato al punto che un coro a lui dedicato lo celebra come «meglio di Pelè». E il sentimento era ricambiato. Al punto che Vialli ha cercato più volte di tornare alla Sampdoria ma questa volta da presidente.
Nel 2019, a capo di una cordata di tycoon americani, ci arrivò vicinissimo ma sul più bello Ferrero (da quel momento ancora più odiato nella Genova blucerchiata) fece saltare l’accordo pretendendo più soldi. Ma lui non si era
rassegnato e ci ha riprovato, più volte, senza successo. Anche facendosi coinvolgere da una fantomatica cordata guidata da uno sceicco del Qatar e spinto da faccendieri e intermediari quantomeno folkloristici che in caso di acquisto lo avrebbero designato presidente. Era il suo sogno, l’ultimo sogno. Mentre la sua Sampdoria stava scivolando inesorabilmente verso il fallimento.
Ma cordoglio bipartisan a parte, che non è mancato, il calcio è andato avanti. E vuoi mettere il godimento sportivo dei genoani. Loro tornano in serie A, «quelli là» retrocedono e in più falliscono pure. L’apoteosi, con tanto di caroselli in piazza per festeggiare il saliscendi sportivo e la grande festa per la sparizione dei nemici già pronta.
Ma come diceva Boskov, maestro di calcio e di vita, «dopo pioggia sempre viene sole» e proprio all’ultima curva, poco prima dello schianto, in una notte di fine maggio a prendere il timone blucerchiato sono arrivati l’imprenditore Andrea Radrizzani, già padrone del Leeds, e il finanziere Matteo Manfredi. Hanno liberato la Sampdoria dal trust, sottoscritto un aumento di capitale e salvato il club dal fallimento. Non solo. Vista l’amicizia personale tra Radrizzani e il patron del PSG Nasser Al Khelaifi, il ricchissimo fondo sovrano del Qatar è pronto a entrare nel business immettendo soldoni pesanti. Gastone è caduto ancora una volta in piedi. Ribaltando di colpo il clima in città.
A far festa adesso, paradossalmente, sono solo i sampdoriani con i genoani che pregustavano un’estate epica costretti a quel retrogusto amaro di chi non se la può godere fino in fondo come sperava. Il pallone va avanti, intanto, genoani e sampdoriani restano sempre lì. Comunque. Non lo ammetteranno mai ma un po’ come Willy il Coyote e Beep Beep, si odiano, si beccano, se ne fanno di ogni, però alla fine non possono fare a meno l’uno dell’altro. Che vita sarebbe senza l’eterno nemico. Magari tra un anno tornerà quella partita speciale in cui chi vince può sfoggiare sorrisi e sguardi di superbia e chi perde deve star zitto e abbassare la testa. Magari. Perché il derby, a Genova, è questo. E molto di più. E no, non è solo una partita. Non è soltanto un gioco