Classe, carattere, leadership e coerenza nelle scelte hanno caratterizzato la vita e la carriera del campione scomparso venerdì a 58 anni
Con una delle sue geniali intuizioni, Gianni Brera l’aveva soprannominato Stradivialli, e siccome Luca era cremonese davvero il patriarca del giornalismo sportivo italiano non avrebbe potuto trovare un accostamento più azzeccato. Come un violino di primissima qualità, infatti, Vialli era capace di acuti improvvisi, cristallini, folgoranti. Intelligente, potente e provvisto di due piedi assai educati, faceva parte di una strepitosa generazione di giocatori italiani che non avevano nulla da invidiare ai fuoriclasse stranieri che a cavallo fra gli anni 80 e 90 approdavano nella vicina Penisola rendendo il campionato del Belpaese il più bello, ricco e competitivo del mondo. Insieme a Luca, c’era gente del calibro di Paolo Maldini, di Roby Baggio e del suo gemello Roberto Mancini, col quale fece grande la Sampdoria del presidente Mantovani. Di quel gruppo di giocatori azzurri di valore assoluto, Vialli era quello provvisto di maggior entusiasmo e leadership, qualità che lo facevano apprezzare pure dai tifosi delle squadre avversarie. Tanto che Brera – restando in tema di celebri liutai cremonesi – se il ragazzo non avesse avuto un cognome che richiamava alla perfezione quello di Stradivari, avrebbe potuto soprannominarlo anche Amati.
Vialli avrebbe potuto strappare contratti principeschi ai più prestigiosi club d’Europa, ma fino a 28 anni restò fedele alla provincia, dapprima quella lombarda con la maglia grigiorossa della sua Cremonese – che contribuì a portare in serie A – e poi condividendo col Mancio il trono di sovrano doriano e regalando alla Genova blucerchiata, anch’essa tornata da pochissimo nella massima serie, qualche coppa e addirittura uno scudetto che definire storico pare perfin riduttivo. Come detto, finì per accettare le lusinghe juventine solo quand’era ormai quasi trentenne, roba nemmeno immaginabile nel calcio odierno mercificato all’estremo. E lo fece soltanto perché il ciclo sampdoriano, con la sconfitta di Wembley nella finale di Coppa dei campioni contro il Barcellona, si era ormai concluso. La coppa dalle grandi orecchie la vinse poi in maglia bianconera quattro anni più tardi, quando aveva cambiato nome ed era diventata Champions League. Di quella meravigliosa Juve pigliatutto della metà degli anni 90, Luca fu capitano e trascinatore indiscusso e, dopo aver offerto a club e tifosi il trofeo più ambito, fu pioniere di quella schiera di pedatori italiani che, a un certo punto, presero la via dorata del campionato inglese, che ai quei tempi – per diventare un torneo davvero importante – dei fuoriclasse continentali aveva bisogno come il pane. Approdò al Chelsea, club che ormai da un quarto di secolo non vinceva nulla, e in un attimo, a suon di gol e coppe conquistate, riportò i Blues nel calcio che conta, dapprima come giocatore e poi nella romantica doppia veste di manager-player. Se il club di Stamford Bridge oggi è ciò che è, molto del merito di quella rinascita va a Luca Vialli, che per i londinesi fu ancor più importante di Gullit, Zola, Di Matteo e Casiraghi.
Ritiratosi a nemmeno 35 anni – evitando dunque quel patetico trascinarsi all’infinito di carriere ormai concluse che oggi si vede fin troppo spesso – Vialli fu un numero uno anche in veste di dirigente e di commentatore televisivo, perfetto esempio di campione che sa costruirsi una vita anche una volta appese al chiodo le scarpe bullonate. L’unico suo rimpianto fu il rapporto d’amore mai pienamente sbocciato con la nazionale: nel 1990, quando stava raggiungendo l’apice del rendimento da giocatore, fu purtroppo scippato delle Notti magiche del mondiale casalingo da un destino beffardo che volle, per una ubriaca congiunzione astrale, sfilargli la maglia da titolare per consegnarla a Totò Schillaci, centravanti che non possedeva nemmeno un decimo della classe di Luca. Un brutto colpo: ma, evidentemente, la malasorte ancora non si riteneva soddisfatta, e così ora siamo qui a piangerne la morte prematura, che ce lo ha portato via a soli 58 anni per mano di una tremenda malattia.