Trent’anni fa, dopo una delle sue mille cene con gli amici, moriva in un incidente stradale il più iconico giornalista sportivo di lingua italiana
Il venerabile Gian Paolo Ormezzano va ripetendo da tempo immemorabile che lui e tutti i suoi colleghi dovrebbero versare un quinto del proprio salario a Gianni Brera – o ai suoi eredi diretti – per aver dato alla stampa sportiva la dignità che meritava. Prima di Brera, infatti, sui giornali, i pezzi dedicati ad atletica, calcio e ciclismo erano soltanto folklore, annotazioni bizzarre e stantia retorica di derivazione ottocentesca. E spesso venivano affidati a improvvisatori che, pur di vedere il proprio nome stampato fra le colonne, nemmeno pretendevano di farsi pagare.
L’avvento di Brera, della sua cultura sconfinata e della sua infallibile preparazione, alzò di molto il livello. E così, editori e direttori non poterono fare altro che adeguarsi. Ogni testata di un certo prestigio si dotò quindi di redattori capaci e curiosi, in grado di offrire contributi sportivi sempre più professionali. Con l’attenzione sempre rivolta ovviamente a colui che aveva tracciato la via e che nel frattempo, nella sua costante e minuziosa ricerca della precisione, aveva pure provveduto a forgiare gli strumenti indispensabili a un mestiere che doveva per forza dotarsi di una propria fisionomia. Contropiede, melina, libero, goleador, pretattica, intramontabile, centrocampista, sudditanza psicologica e parata in due tempi sono soltanto alcune delle strepitose e rivoluzionarie invenzioni di Gianni Brera. Termini oggi imprescindibili per chi parla la lingua franca del pallone: al bar come sui quotidiani o negli studi televisivi. La sua ispirata penna, inoltre, ha partorito i più geniali soprannomi della storia sportiva italiana, fra cui Nuvola Rossa Gimondi, gli Abatini Rivera e Berruti, la Beneamata (l’Inter), Stradivialli per il cremonese Gianluca Vialli, Schopenhauer Bagnoli e Rombo di Tuono per Gigi Riva: un capolavoro assoluto. Tutti insomma – tifosi, addetti ai lavori e giornalisti – gli saranno debitori per l’eternità . Anche coloro che nemmeno sospettano di doverlo fare, convinti che certi termini alberghino nel vocabolario per volere divino fin dai tempi di Adamo ed Eva.
Le sue Olivetti modellavano cronache dettagliate, fitte di considerazioni che spaziavano dalla medicina alla storia, dalla filosofia alla letteratura. Ma se citava Spinoza – o evocava Rabelais – non lo faceva mai per darsi un tono, bensì per trovare suffragio a teorie, a volte geniali, a volte bizzarre, sviluppate in decenni di studio e osservazione. Dietro lo stacco di un saltatore in alto, un crollo sul Galibier, il modo di portare il jab di Nino Benvenuti o la falcata di Pelé, Brera sapeva vedere radici storiche, psicologia razziale (sue teorie molto personali) e affrancamento dalla fame atavica. La sua prosa – molto spesso arricchita da divagazioni enogastronomiche – era cadenzata da citazioni latine e fulminanti battute nel dialetto natìo. Gioânbrerafucarlo – come spesso si firmava – incarnava l’archetipo del giornalista moderno: preparato, critico, innovativo, appassionato ma non ultrà . Peccato che la via da lui tracciata sia in generale stata poco seguita, se non – come detto – per quanto attiene alla semantica, di cui tutti si sono appropriati.
Classe 1919, a 17 anni scrisse le sue prime cronache per il Guerin Sportivo – si occupava di calcio minore – strappando complimenti a colleghi mostri sacri come Carlin (al secolo Carlo Bergoglio) e Bruno Slawitz, che di quel mitico settimanale erano le firme principali. Laureato in filosofia, fu paracadutista volontario nella Seconda guerra mondiale prima di fuggire in Svizzera per poi rientrare in Italia da partigiano. Nella confusione di quei giorni – in cui risultava difficile capire da che parte stava colui che ti si parava di fronte – per uno scambio di persona rischiò la fucilazione dopo un processo sommario, e fu salvato soltanto in extremis dalla testimonianza di un garibaldino dell’Ossola che garantì per lui e che raccontò come il Gioânn fosse stato determinante nel sabotare diversi piani repubblichini.
Tornato alla vita civile, fu direttore della Gazzetta dello sport a 30 anni appena compiuti, ma – per nulla intenzionato a sottostare a certe pressioni della proprietà , che lo accusava di dare troppo spazio alle imprese degli atleti sovietici – dalla Rosea se ne andò dopo pochi anni per fornire i suoi servigi al Giorno, all’amato Guerin (di cui fu pure direttore), al Giornale di Montanelli e infine a Repubblica, dove lo portò il povero Mario Sconcerti, morto proprio due giorni fa.
Amante di caccia e pesca come l’Hemingway che tanto amava – ma molto meno ricco di Papa – aveva dovuto sostituire leoni e marlin con persici e beccaccini, dei quali descriveva non solo le modalità di cattura, ma pure l’arte del cucinarli. Fu tutore del grande Gianni Mura, del quale riconobbe prestissimo il talento e che trattò come fosse un figlio adottivo, e fu amico fraterno di Luigi Veronelli, il solo a cui si sentisse inferiore nella conoscenza dei vini: con lui fra l’altro scrisse la bibbia della cucina lombarda. Ma fu sodale pure di moltissimi altri celebri personaggi, fra cui Ottavio Missoni, Oreste Del Buono, Gianni Clerici, Rolli Marchi, Antoine Blondin, coi quali tirava tardi, prosciugava bottiglie (Barbacarlo il suo preferito) e scambiava opinioni sulla vita e sul mondo che poi rielaborava e consegnava con stile magistrale ai fedeli e avidi lettori delle sue rubriche.
Generosissimo, agli amici regalava quadri d’autore e offriva pranzi e cene a tutti quelli che avessero qualcosa da raccontargli. Era dunque costretto a lavorare come un mulo per permettersi un certo tenore di vita: scriveva pezzi (anche su testate ticinesi) per chiunque fosse in grado di pagarglieli adeguatamente e si concedeva poche settimane di vacanza, che trascorreva a Monterosso dimenticando bici e pallone e cercando di scrivere – con bravura non sempre riconosciuta da una critica spesso miope e schizzinosa – romanzi e commedie che esulassero dal suo abituale campo d’azione. Per denaro si dette nell’ultima decina d’anni pure alla televisione, senza accorgersi che quel mezzo di comunicazione traditore, invece che corroborarlo, contribuì purtroppo a macchiare il mito del Gianni Brera re della carta stampata.
Lettore bulimico, si era fatto dentro e fuori dall’università una vastissima cultura umanistica, che gli tornava utile non soltanto in veste di cronista sportivo – per decenni fu il migliore in Italia e forse in Europa – ma pure come storico, romanziere, biografo e saggista. Intelligente, ironico, bon viveur, ammirato anche fuori dai suoi patrii confini, il mattino in edicola era atteso quanto Bocca, Buzzati e Montanelli, e le sue invettive innescavano immancabilmente polemiche su scala nazionale. Veniva letto come un oracolo anche dai suoi detrattori, spesso offesi dalle sue annotazioni di tipo etnico, roba che oggi – per fortuna o purtroppo – nessuno potrebbe più permettersi di scrivere.
Brera infatti non smetteva mai di rimarcare pregi e meriti dei lombardi. Ma anche la loro smisurata dabbenaggine, visto che accettavano in silenzio di venire soggiogati e governati dalle proprie colonie commerciali. Il Gioânn era certo lombardista, ma conosceva il mondo troppo a fondo per essere anche leghista. E dispiace vedere oggi che Padania – altra parola immaginifica coniata in tempi non sospetti da Brera a suo uso personale – abbia in seguito assunto connotati assai fuorvianti.