Una delle figlie di Beppe Viola, scomparso 40 anni fa, tratteggia un ricordo intimo del giornalista sportivo più originale in assoluto
‘L’ultima frase che mio padre ha detto uscendo di casa quel maledetto 17 ottobre è stata: che bella casa che abbiamo’. Lo dice in un post su Facebook Marina Viola, una delle quattro figlie di Beppe, adolescente quando lui se ne andò a 43 anni nel 1982. Ed è proprio ricordando la grande abitazione di via Sismondi a Milano che inizia la telefonata con Marina, che vive da trent’anni nel Massachusetts ma che in questi giorni si trova nel capoluogo lombardo, un po’ perché in occasione dei quarant’anni dalla morte del padre sono state organizzate serate a cui non voleva mancare e un po’ perché, con la scomparsa della madre Franca – avvenuta qualche mese fa – lei e le sue sorelle quella bella casa dove sono cresciute hanno deciso di venderla.
«Era un appartamento grandissimo, quindi molto spesso gli amici di papà venivano a trovarci. Noi ragazze però non avevamo la più pallida idea di chi fossero e cosa rappresentassero queste persone una volta uscite da casa nostra. Solo crescendo, quando mio padre era già scomparso, abbiamo scoperto che era tutta gente famosissima. Del resto, non sapevamo nemmeno che a esser celebre fosse anche lui. Solo più tardi abbiamo capito che lui faceva un lavoro importante e lo faceva bene, e spesso insieme a persone altrettanto brave. Lui comunque non si è mai vantato della sua notorietà. Quando veniva riconosciuto, anzi, gli dava un po’ fastidio. Pare impossibile, ma in realtà era molto timido. Era una persona semplice, non se la tirava per niente. Gli piaceva divertirsi, e gli veniva bene. Gli piaceva lo sport, e raccontarlo gli veniva bene. Da bambine, comunque, non sapevamo nemmeno se facesse il giornalista o il giornalaio, giusto per farti capire quanto poco parlasse con noi del suo lavoro».
Meglio sarebbe dire i suoi lavori, visto che Viola, oltre a raccontare lo sport in una maniera tutta sua – innovativa e genialmente surreale –, di mestieri ne faceva molti altri. Scriveva infatti i testi per cabarettisti come Cochi e Renato o l’esordiente Diego Abatantuono – che nel loro campo furono all’avanguardia come lo fu Beppe sui giornali e in tv – buttava giù per Enzo Jannacci pietre miliari della canzone italiana come ‘Vincenzina e la fabbrica’ o ‘Quelli che’, e sfornava sceneggiature di film straordinari come ‘Romanzo popolare’, capolavoro portato sullo schermo da Mario Monicelli. Tutta gente che in via Sismondi era di casa. «Nel vero senso della parola», conferma Marina. «Jannacci, per molto tempo, viveva più da noi che a casa sua, per cui per noi bambine era una specie di zio. Veniva a cena un sacco di gente, scrittori, attori, comici del Derby – il tempio del cabaret milanese – e ridevano tutti come pazzi. In quel periodo lui e i suoi amici – chi nella musica come Enzo, chi nello sport come papà e chi sul palcoscenico come Pozzetto e Ponzoni – hanno inventato un modo di esprimersi che era certamente all’avanguardia. Erano gli unici a farlo, e dunque inevitabilmente spiccavano».
E gli amici sono rimasti in contatto con voi anche dopo la scomparsa di tuo padre? Vi sono stati vicini? «No, non tutti. Mia mamma non ha mai chiesto nulla a nessuno. Poi, chi ha voluto rimanere vicino a noi lo ha fatto, anche se con qualcuno i contatti col tempo si sono un po’ persi. Ad ogni modo, lo ricordano ancora tutti con grande affetto». E a pensare a lui con riconoscenza, a quarant’anni dalla morte, sono pure milioni di lettori che, pur non avendolo conosciuto di persona, da Beppe Viola hanno ricevuto parecchio: ‘quelli che’ guardavano i programmi della Rai solo per i suoi servizi, ‘quelli che’ su Linus andavano a leggersi prima di ogni altra cosa la sua rubrica, ‘quelli che’ se non fosse stato per lui in un ippodromo non ci avrebbero mai messo piede. Spassosissimi, a proposito, i racconti di Viola ambientati nel mondo dei cavalli, con personaggi – superbamente tratteggiati – al limite fra legalità e piccola malavita, loschi figuri che parlavano un coloratissimo gergo da iniziati. «Papà ha vissuto sulla propria pelle la malattia del gioco, perché suo padre e i suoi undici zii a San Siro si sono mangiati tutto ciò che avevano, e il vizio ce l’aveva anche mio padre, eccome. Papà amava i cavalli – anzi ‘le bestie’, come le chiamava lui –, amava quel mondo e i personaggi che lo abitavano. All’ippodromo ha passato moltissimo tempo, e quando eravamo piccoline portava anche noi. Ha pure scommesso molto, spero di non venire mai a conoscenza delle cifre esatte. Ad ogni modo, non ci ha mai fatto mancare nulla, quindi non si è certo rovinato. Resta il fatto che ‘bestie’, driver e allenatori occupavano una bella fetta del suo tempo, e lui ne andava pure fiero, dato che era un po’ matto, come sai».
Che padre e che marito era Beppe? «Era un papà simpaticissimo, anche se spesso assente. Con lui si giocava tanto e si rideva moltissimo. Certo, con tutti i lavori che faceva, non è che fosse sempre a nostra disposizione. Era estremamente affettuoso, facevamo tante cose insieme, ci ha fatto scoprire Milano, i vari quartieri. Qui – ci raccontava – è successo questo, qui invece quest’altra cosa. Ci portava al cinema, in pizzeria, al bar del signor Gattullo…». A mangiare quei famosi panini da quindici piani, i più cari del mondo, come li definiva lui? «Quando c’eravamo anche noi, ci andavamo per comprare le paste. A quei tavolini, con gli amici, lui passava molte ore, buttando giù sketch, perdendo tempo e fumando. Lui comunque era un mangione, e quindi non c’è leggenda nella descrizione di quei panini, è tutto vero. Ad ogni modo, per quanto è durato, è stato un bravissimo papà. E anche come marito: era molto romantico, innamoratissimo di mia mamma. Con un po’ di alti e bassi, ovvio, come succede a ogni coppia».
Le sue battute fulminanti, la sua lingua e i suoi colpi di genio risultano freschi ancora oggi, avanti anni luce rispetto a tutto ciò che si legge. Una volta, dato che Milan-Inter era stata una partita penosa, montò il servizio per la Domenica Sportiva con le immagini del derby dell’anno prima. E all’ennesimo gol facile sbagliato da Egidio Calloni – un pittoresco attaccante del Milan – Viola scrisse: ‘Calloni sventa la minaccia’. Una cosa così è la firma di un genio. Ma pensiamo anche ad esempio alla celeberrima intervista fatta a Gianni Rivera a bordo di un tram, o alle lettere aperte che Beppe indirizzava ai capoccioni della Rai – che lo trattavano malissimo – oppure ai ladri che gli avevano fregato la macchina. Dopo di lui non c’è stato più nessuno che sapesse inventarsi roba del genere. Così scrisse di lui Gianni Mura: "Era consapevole del distacco, per non dire emarginazione, derivanti dal suo modo ‘altro’ di essere giornalista sportivo". Una delle cose che ci siamo persi, pensando alla prematura scomparsa di tuo padre, è il modo in cui avrebbe punzecchiato per venti o trent’anni un personaggio come Berlusconi – dopo la sua famosa discesa in campo – sulle riviste con cui collaborava o dal suo angolino fantozziano nella sede della televisione pubblica, come del resto aveva sempre fatto ad esempio con un personaggio come l’avvocato Agnelli. «Non gli avrebbe certo risparmiato critiche, ovviamente con la sua ironia. Del resto, non era certo un arrivista. Anzi, diceva sempre che puntava a stabilire il record mondiale di mancata carriera, e stava per farcela, perché aveva il pregio – o il difetto – di dire sempre ciò che pensava, specie se una cosa non gli piaceva».
Quando Viola morì, a causa di un ictus di cui fu vittima negli studi della Rai una domenica sera dopo aver montato un servizio su Inter-Napoli, un mostro sacro del giornalismo come Gianni Brera scrisse di lui: "Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato in una corsa. Tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva uno humour naturale e beffardo, un’innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per avere chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto per questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore".
«Parole toccanti, bellissime», riconosce Marina, «di cui venni a conoscenza solo molti anni dopo, già adulta, quando ad andarsene fu Brera». Appunto: se tutto fosse andato secondo le leggi di natura, avrebbe dovuto essere tuo padre a scrivere il coccodrillo di Brera, e non il contrario. Tu sai cosa pensava tuo papà di una figura come quella di Brera, giornalista formidabile ma inevitabilmente appartenente a un’epoca molto diversa da quella in cui si muoveva tuo padre? «Per quanto molto diversi – anche nel modo di intendere la professione – so che ogni tanto si vedevano, ma non a casa nostra. Erano entrambi amanti del vino, del tabacco e delle lunghe serate trascorse in compagnia. Facevano sempre le ore piccole, e un po’ pagavano questo genere di vita: sia Brera sia mio padre, infatti, dimostravano molti più anni di quelli che avevano. Personalmente, non ho ricordi diretti di Brera e papà insieme, ma crescendo ho saputo che c’era stima reciproca e che mio padre lo considerava un grande maestro».