A differenza di quanto avvenuto per altre edizioni, stavolta nessuno mette in discussione la scelta della giuria del prestigioso riconoscimento
Nessuna sorpresa ieri a Parigi alla proclamazione del Pallone d’oro 2022, conquistato con merito dal prolifico centravanti del Real Madrid. La scelta del vincitore è stata infatti condivisa da tutti, giurati e grande pubblico, come di rado è avvenuto nel passato. Ricordiamo davvero pochi campioni in grado, come Benzema, di fare l’unanimità. E fra questi, paradossalmente, c’è un giocatore che l’ambìto premio nemmeno l’ha vinto: parliamo di Robert Lewandowski, che nel 2020 – da ognuno ritenuto meritevole del riconoscimento – ne fu privato per colpa del Covid. Decisione assai discutibile quella presa due anni fa dagli organizzatori, dato che, con pochissime eccezioni, la pandemia non aveva impedito lo svolgimento regolare dei maggiori tornei, cioè Coppe continentali e campionati più importanti. Ma non fu giocato l’Europeo, obietterà qualcuno. Certo, ma mica ogni anno in calendario c’è un grande torneo per nazioni. Eppure, il Pallone d’oro viene attribuito lo stesso: bastava considerare il 2020 come un anno dispari e assegnare al polacco il premio che strameritava.
Del resto, polemiche attorno a questo trofeo ce ne sono state in abbondanza fin dalla sua creazione, nel 1956, quando la rivista France Football decise di proclamare il calciatore che più si fosse distinto nel corso dell’anno solare, che quella prima volta fu l’inglese Stanley Matthews, quarantaduenne stella del Blackpool. Come detto, subito giunsero le prime critiche, dato che l’annata agonistica, nel calcio come in altre discipline, andava più o meno da settembre a maggio, e non da gennaio a dicembre. Non avete tutti i torti, risposero a Parigi, ma il criterio non venne mai modificato fino a quest’anno, quando finalmente si è deciso di abbandonare il lunario civile a favore di quello sportivo. L’assegnazione del premio a Karim Benzema, dunque, rappresenta una novità dopo ben 66 anni passati a spezzare contro natura il calendario calcistico.
Assai dibattuto fu pure il criterio secondo cui il premio andasse attribuito unicamente a giocatori che militassero in squadre europee e che possedessero una nazionalità del Vecchio Continente, limiti che a lungo esclusero dal novero dei papabili molti grandissimi nomi: basti citare Maradona, cioè il più grande di tutti. Il veto relativo alla nazionalità cadde solo nel 1995, e subito a imporsi fu il liberiano George Weah. A parziale risarcimento degli esclusi, nel 2016, in occasione del 60° anniversario del Pallone d’oro, France Football fece sapere che – se non ci fossero stati questi paletti – 12 dei 39 trofei assegnati dal ’56 al ’94 avrebbero avuto un altro padrone: ben 7 sarebbero infatti finiti nel carniere di Pelé, 2 in quello di Maradona, e 1 in quello di Garrincha, Kempes e Romario. Operazione ad ogni modo poco elegante, oltre che inutile: come si saranno sentiti ad esempio Kopa, Di Stefano, Suarez, Sivori e Gerd Müller sentendosi dire che il loro trofeo, in realtà, sarebbe dovuto finire nella bacheca di un altro?
Poco amata fu pure l’orrenda ibridazione – per fortuna di breve durata – che vide il Pallone d’oro unificato al riconoscimento rivale per antonomasia, vale a dire il Fifa world player, che invece dei voti della stampa usava per determinare la graduatoria quelli di allenatori e capitani. Come detto, durò poco (dal 2010 al 2016) e presto a votare tornò a essere il solo gremio di giornalisti.
A mettere in dubbio la trasparenza delle scelte dei giurati, specie durante i primi decenni di vita della kermesse, fu pure il sospetto (peraltro ben fondato) che il premio, più di una volta, sia stato attribuito con metro politico più che tecnico. Altrimenti, non si spiegherebbe il fatto che il trofeo non fu mai vinto da un mostro sacro come Puskas: la verità è che lui, e tutti i suoi compagni che abbandonarono l’Ungheria dopo i fatti del ’56, furono bellamente esclusi dai candidati perché i francesi non volevano far torto a Mosca – che aveva spinto i campioni all’esilio – né tanto meno sembrare condiscendenti con la Spagna franchista, che quei califfi aveva adottato. E di chiaro stampo politico parvero pure i riconoscimenti a giocatori non certo eccelsi come Florian Albert (magiaro), Oleg Blochin e Igor Belanov (entrambi sovietici): semplicemente, per quieto vivere, si usava ogni tanto di recapitare il trofeo Oltrecortina, benché di quel calcio e di quei giocatori, all’epoca, i votanti conoscessero poco più di nulla.