Sorprese e spettacolo alle finali universitarie di basket statunitense: trionfo di Louisiana State fra le donne e di Connecticut in campo maschile
Anche questa March Madness, così febbrilmente attesa, è volata via regalandoci a secchiate tutte quelle emozioni di cui avevamo bisogno. Ribaltoni, sorprese, partite rocambolesche, finali caotici. Tanti eroi per caso, e altrettanti illustri sconfitti: ingredienti base di un evento sportivo unico al mondo per il formato e per la smisurata presa sulla popolazione. Hanno vinto due squadre che non figuravano in alcun pronostico: gli Huskies della University of Connecticut tra gli uomini; le Tigers di Louisiana State University tra le donne. Provati da questa indigestione di basket, riprendiamo fiato e proviamo a capire cosa è successo, prima di iniziare il conto alla rovescia per il prossimo autunno. E soprattutto, per la prossima primavera.
“La Final Four più bizzarra di sempre”. Così sono state salutate le semifinali giocate a Houston, davanti ai 75mila tifosi del NRG Stadium. La solita cornice tanto scenografica quanto scomoda, visto che, con le proporzioni totalmente distorte dalla dimensione dello stadio, buona parte dei presenti la partita ha potuto solo godersela, letteralmente, con il binocolo.
Delle quattro semifinaliste, solo Connecticut vantava un pedigree nobile a livello universitario. Le altre tre erano all’esordio assoluto su un palcoscenico del genere. Spuntata dal nulla Florida Atlantic University, ateneo che sorge sul litorale di Boca Raton. Meno sorprendenti, ma comunque inaspettate, le presenze di Miami e San Diego State. Scherzi di un torneo in cui per la prima volta nessuna testa di serie 1, 2 o 3 è arrivata all’atto finale. Gli Americani, sempre ansiosi di elencare primati, hanno salutato la cosa come evento inaudito. Ma si tratta di un risultato che deriva pure dalla totale arbitrarietà delle scelte di chi mette assieme il tabellone, chiamato a imporre gerarchie a squadre dal valore molto simile, se non indistinguibile. Resta il fatto che una tale ecatombe di nomi famosi si stenta a ricordare: Kansas, Duke e Kentucky, tre superpotenze, sono andate in vacanza dopo il primo weekend di torneo; North Carolina, in finale lo scorso anno, nemmeno si è qualificata.
Mentre tutti capitolavano, Connecticut si è imposta come la squadra nettamente più solida. Nelle sei partite vinte per arrivare al titolo, si è trovata in svantaggio per un totale di 5 miseri minuti, spazzando via gli avversari con scarti sempre in doppia cifra. Una prova di forza che premia il lavoro di Dan Hurley, allenatore di feroce determinazione, e riporta allo splendore una superpotenza rappresentata in passato da campioni come Rip Hamilton, Ray Allen, Kemba Walker, e pure Shabazz Napier — ora in forza all’Olimpia Milano. In linea con quanto fatto in precedenza, gli Huskies hanno controllato la finale, riservando a San Diego State lo stesso spietato trattamento adottato nei confronti degli avversari. Gli ingredienti del trionfo sono stati una difesa molto fisica, attacco equilibrato, e grande forza d’urto sotto canestro, sublimata dai muscoli di Adama Sanogo, il centro del Mali che ha vinto il trofeo di miglior giocatore della Final Four, spazzando via chiunque provasse a mettersi sulla sua strada.
E così, la stagione si è conclusa con i rituali di sempre. I coriandoli – curiosamente chiamati confetti – che volano nell’aria; la retina tagliata e portata a casa come ricordo; e il classico filmato di One Shining Moment mandato in onda sul tabellone elettronico: un video di oltre tre minuti, tanto melenso quanto emozionante, che ripropone i momenti salienti del torneo, dalle prime partite al trionfo finale. Facendo di fatto calare il sipario sulla stagione.
Le emozioni più intense, però, erano arrivate pochi giorni prima, al termine di un torneo femminile che sarà difficile dimenticare. Giocata in parallelo con quello degli uomini, e con la stessa formula a eliminazione diretta, la March Madness delle donne è sempre una grande fonte di spettacolo. Sia per il livello tecnico di chi va in campo, che per i personaggi che popolano le panchine, tra cui alcuni degli allenatori più famosi della storia del gioco. Quest’anno, però, si sono toccate vette mai sfiorate prima. Merito soprattutto di Caitlin Clark, la sensazionale stella dell’University of Iowa. Una guardia dal fisico apparentemente normale, ma con un talento smisurato, che le ha permesso di polverizzare qualsiasi difesa abbia provato a fermarla. Tiratrice micidiale, passatrice divina, sgusciante in penetrazione, Clark ha trascinato le compagne a un’incredibile cavalcata nel torneo, arrivando a eliminare le campionesse in carica della University of South Carolina in semifinale: una squadra strafavorita, imbattuta da quasi due anni, e con una potenza fisica e atletica sulla carta inarrivabile. Eppure, Clark ha fatto il miracolo. Segnando 41 punti in faccia alle avversarie, e imbeccando puntualmente le compagne ogni volta che la difesa ha provato a raddoppiarla. Con 191 punti nel torneo, ha sbriciolato il record di tutti i tempi, uomini inclusi, guadagnandosi un posto nella storia. E facendo incollare davanti alla televisione oltre 10 milioni di spettatori per la finale, primato assoluto per il basket femminile. Come spesso accade in questa crudele competizione, però, il lieto fine non c’è stato. Clark e Iowa sono capitolate in finale contro le tenaci Tigri di Louisiana State University allenate dalla leggendaria Kim Mulkey.
Abbigliamento stravagante, temperamento sanguigno e un cervello per la pallacanestro con pochi eguali. Dopo aver accatastato titoli su titoli alla guida di Baylor University - dove aveva reclutato e allenato Brittney Griner, campionessa poi divenuta tristemente famosa per aver trascorso mesi in una prigione in Russia - Mulkey è tornata a casa, sulla panchina dell’università dove aveva giocato. La sua doveva essere una strada in salita, ma in soli due anni, e contro ogni pronostico, è già riuscita nell’impresa di portare l’ateneo al primo titolo della sua storia. Una vittoria meritatissima, figlia del dominio a rimbalzo e dell’ottima difesa, oltre che di una serata di gloria nel tiro da fuori. Ma che ha pure lasciato uno strascico polemico, quando Angel Reese, fuoriclasse di Louisiana State, ha inseguito per il campo Clark, sventolandole davanti al naso il gesto di sfottò “you can’t see me” (non riesci a vedermi), reso celebre dal wrestler John Cena. La giocatrice di Iowa non ha risposto alla provocazione di Reese, ma per quest’ultima non sono mancate le critiche, alcune delle quali ben oltre i limiti dell’insulto. E così, una banale scaramuccia di campo ha messo in luce una volta di più la tensione razziale che negli Stati Uniti permea anche gli atti più banali. Come fatto prontamente notare chi ha osservato che lo stesso livello di stigmatizzazione non si è visto quando è stata Clark - bianca, a differenza di Reese - a fare quel gesto per irridere le avversarie.
Ma la storia della March Madness non la fanno solo i vincitori. A rimanere scolpiti nella storia, oltre a chi solleva i trofei, saranno i protagonisti che hanno animato queste tre settimane. Personaggi a volte sbucati da nulla, che con le loro prodezze atletiche e un certo intuito teatrale si sono ritagliati dei momenti di immortalità. Su tutti, il folletto Markquis Nowell. 1,75 di statura, cresciuto a Harlem, ignorato dalle università di New York, e poi, dopo un lungo peregrinare, finito a Kansas State University. Ironia della sorte, in una città chiamata Manhattan, a 2000 km dall’omonima e ben più famosa penisola nella Grande Mela. E proprio a New York, nella città dove è cresciuto, Nowell ha dato vita a una partita che entrerà negli annali del basket universitario. Era la prima volta che metteva piede nel Madison Square Garden, il palasport globalmente considerato un tempio sacro della pallacanestro. Per celebrare l’evento, Nowell ha pensato bene di sfoderare una prestazione leggendaria, in cui ha fatto a fette la difesa di Michigan State University con una serie di passaggi magistrali, chiudendo con 19 assist, record di tutti i tempi per il torneo universitario. Una dimostrazione di abilità impressionante che ha mandato in visibilio il pubblico del Garden, culminata con la giocata spettacolare con cui ha chiuso i conti: un rischiosissimo passaggio da metà campo per la schiacciata al volo di un compagno, con il punteggio pari e un solo minuto alla fine.
E proprio il fotogramma di quel canestro, che ha spinto molti spettatori a mettersi le mani nei capelli, è subito diventato un instant classic. Uno di quei momenti spettacolari che andrà a imprimersi nella memoria collettiva, e verrà riproposto nei prossimi anni assieme alle altre prodezze che hanno fatto la storia del torneo. Poco importa che, dopo questo trionfo, per Nowell e Kansas State sia poi arrivata una cocente eliminazione, quando ormai l’approdo in semifinale sembrava cosa fatta. Il posto negli annali è salvo, e con esso il momento di gloria nei filmati. Perché la follia di Marzo, per quanto volubile, è sempre in grado di regalare l’immortalità. Se poi arriva nella forma di un video sdolcinato, è ancora più bello.