Il numero 30 di Golden State ha superato Ray Allen diventando il miglior tiratore da 3 punti della storia dell’Nba, che avrà per sempre un prima e un dopo
L’uomo che ha cambiato il gioco. Perché quando si finiscono i superlativi, è nella Storia con la S maiuscola che si vanno a cercare i modi per provare a descrivere qualcosa che in realtà descrivibile non è. Non a parole, non con i numeri, per quanto impressionanti possano essere. Perché Steph Curry va oltre tutto questo. Come i vari Kareem Abdul-Jabbar, Larry Bird, Wilt Chamberlain, Kobe Bryant, Michael Jordan e LeBron James, giusto per citarne alcuni. Non solo protagonisti e icone del basket: il Basket.
I numeri, casomai, aiutano noi comuni mortali a capire e in questo senso la certificazione, semmai ve ne fosse bisogno, del posto che spetta di diritto al numero 30 di Golden State nell’Olimpo di questo sport è arrivata martedì notte al Madison Square Garden, “the world’s most famous arena”, manco a farlo apposta uno dei palcoscenici più iconici dello sport e non solo. Una prima tripla piazzata dopo poco più di un minuto di gioco della sfida tra i suoi Warriors e i New York Knicks per raggiungere Ray Allen a quota 2’973 centri da tre punti realizzati. Poi, poco più di due minuti più tardi, esattamente a 7’33 secondi dalla fine del primo quarto, il canestro del sorpasso, che ha reso il 33enne di Akron (Ohio, ma cresciuto a Charlotte, dove giocava il papà, pure lui cestista professionista) il miglior tiratore dalla lunga distanza della storia della Nba, quindi il migliore nella storia del basket. Partita interrotta, tifosi (avversari compresi) in visibilio, abbracci con lo stesso Allen e con un altro mostro sacro della conclusione dall’arco come Reggie Miller (terzo nella speciale classifica a quota 2’560), ma soprattutto con mamma Sonya e papà Dell, quest’ultimo fondamentale nell’evoluzione del figlio.
Quando infatti, attorno ai 12 anni, il piccolo Steph frenato da un fisico troppo esile e leggero per fare la differenza nel basket giovanile aveva deciso di abbandonare il sogno di seguire le orme del padre e passare al baseball, più adatto alle sue caratteristiche atletiche, era stato proprio papà a impedirglielo e a portarlo – visto che lo costringeva a tirare sempre da più lontano, lui che con le sue esili braccia faticava a fare arrivare il pallone anche solo vicino al ferro – a sviluppare uno stile di tiro tutto suo che è poi diventato un marchio di fabbrica: niente piedi (o non per forza) allineati e rivolti a canestro e soprattutto la sfera non rilasciata al culmine della sospensione, bensì durante l’ascesa (è capace di farlo nel giro di 4 decimi di secondo). Un movimento tecnicamente non corretto per i canoni del basket ma maledettamente efficace da qualsiasi posizione quando è Curry a effettuarlo, a tal punto da arrivare a modificare appunto il gioco stesso, con le squadre avversarie costrette non più a difendere prevalentemente sotto canestro, ma da molto più lontano. E pure “lontano” con Steph è diventato un concetto relativo e tarato sulle sue straordinarie capacità, visto che queste ultime gli permettono di andare a canestro e quindi essere una minaccia per gli avversari ben oltre i 7,24 metri dell’arco dei tre punti, con la retina che sembra muoversi con la stessa inesorabilità anche quando scocca il tiro da 10, 12 o 14 metri (sì, da metà campo). E questo senza dimenticare i numeri di magia in palleggio e in penetrazione figli del suo fisico agile, così come una visione di gioco da uomo-assist altrettanto efficace, tutti fattori che lo rendono uno dei giocatori più imprevedibili e letali (non a caso uno dei suoi soprannomi è “the Baby Face Assassin”, l’assassino con la faccia da bambino) della storia di questo gioco, che lo ha visto segnare in ogni modo possibile – delle sue 2’977 triple (l’altra notte in totale a New York di “bombe” ne ha messe 5), 1’255 sono arrivate dal palleggio mentre 1’722 in ricezione e tiro –.
A proposito di bambino, riportato sulla strada del basket dal padre, le critiche e i dubbi legati al suo fisico lo accompagnano sia negli anni del College (snobbato dalle principali università e senza borsa di studio, decide di iscriversi al Davidson College, l’unico istituto a non aver mai vinto una partita nel torneo Ncaa dal 1969) sia nei primi passi nel professionismo, con Golden State che lo sceglie come settima scelta al draft del 2009 ma con le caviglie (anch’esse molto fragili) che lo rallentano in particolare nella seconda e terza stagione in California. Poco male, perché Steph come gli aveva insegnato papà non smette mai di lavorare e si annuncia al grande pubblico con una stagione 2012-13 da 78 partite e una media di 22,9 punti a partita, con il “career high” realizzato proprio all’Msg di New York in un match in cui realizza 54 punti (massimo poi migliorato a 62 lo scorso gennaio contro Porland), di cui 11 triple. È l’inizio di un’ascesa che lo porterà a guidare i suoi Warriors (coadiuvato da elementi del calibro di Draymond Green, Klay Thompson e Kevin Durant) a disputare cinque finali Nba tra il 2015 e il 2018 vincendone tre (sempre contro Cleveland), nonché a venir eletto due volte Mvp (miglior giocatore) della stagione, nel 2016 addirittura all’unanimità, cosa mai successa.
Una grandezza che si misura anche nell’entusiasmo che crea nei palazzetti solo con la sua presenza e a prescindere dalla fede cestistica, con le persone che si assiepano sulle tribune già durante il riscaldamento, nel quale dà spettacolo tirando da metà campo e persino dal tunnel che porta negli spogliatoi.
E poi ci sono i numeri. Oltre a quelli già sciorinati, Curry detiene il record per numero di triple segnate in una singola regular season (402, nel 2015/16) ed è in corsa per migliorarlo ulteriormente visto che viaggia a 5,4 centri dalla distanza a partita (erano stati 5,1 quell’anno), con un tasso di realizzazione del 40,1%. Prima ancora dovrebbe cadere un altro primato già suo, ossia quello di match consecutivi con almeno un canestro da tre: tra il novembre 2014 e quello 2016 ne ha inanellati 157, in questo momento è a 152 (la sua ultima partita da 0 triple risale al novembre 2018). E lo abbiamo già detto che per raggiungere e superare il record di Allen, Curry ha impiegato poco più della metà delle partite? Già, 789 contro le 1’300 dell’ex giocatore dei Celtics, o le 1’389 di Miller.
Altri tempi, dirà qualcuno. Vero, se infatti in passato il tiro da tre punti (introdotto nella Nba nel 1979) era considerato più un’ultima ed estrema opzione che un’arma della quale servirsi con continuità, nel tempo questo paradigma è progressivamente mutato, arrivando praticamente a capovolgersi negli ultimi anni, con molti più tentativi (e quindi canestri e punti) in ogni partita. Non deve però sfuggire un dettaglio: a prendere nelle sue mani fatate e capovolgere in questo modo il basket, è stato Steph Curry.
«Tutta l’Nba ha contribuito a cambiare il gioco, ma è vero che Steph Curry lo ha fatto forse come nessun altro – ci spiega Renato Carettoni, ex tecnico tra le altre della Nazionale rossocrociata e grande conoscitore del basket di casa nostra e internazionale –. Oggi si tira molto di più da tre punti perché è un modo per evitare la grande fisicità che c’è sotto canestro, paradossalmente è diventato più difficile segnare da sotto che da lontano. In questo Curry è maestro, ci sono partite in cui mette 10-12 triple, tante pure con addosso l’avversario, in quanto ha una capacità incredibile di costruirsi il tiro anche da solo. Anzi a volte sono addirittura due o tre i giocatori che provano a contrastarlo e questo significa che già solo con la sua presenza, Curry costringe le difese avversarie a un lavoro extra e crea spazi per i compagni. Non mi limiterei però alle caratteristiche tecniche, oltre al tiro ha molto altro ed è un vero e proprio trascinatore della squadra, che quest’anno è tornata a viaggiare (dopo due stagioni difficili a causa in particolare di una lunga serie di infortuni apertasi nei playoff 2019, culminati con la sconfitta in finale contro Toronto, e la partenza di Durant, ndr) e che con l’imminente recupero di Thompson potrà tornare a lottare per il titolo».
Uno degli aspetti che colpiscono e affascinano di più del numero 30 di Golden State, è «la naturalezza con la quale effettua certe giocate, fa sembrare facili le cose lasciando tutti a bocca aperta. Un modo di giocare spettacolare ma non fine a se stesso – anzi, funzionale al suo obiettivo, ovvero segnare o liberare un compagno – che ha riportato entusiasmo in una Nba che si era un po’ arenata. Dopo Michael Jordan c’è stato un periodo in cui solo i suoi eredi designati Kobe Bryant e LeBron James hanno diciamo tirato il carro, ma i Golden State di Curry (perché non dobbiamo dimenticarlo c’erano anche i vari Durant e Thompson) hanno portato qualcosa di nuovo e sono forse stati la squadra, anche se è sempre difficile fare confronti tra epoche diverse, più forte di sempre, anche dei Bulls di Jordan. Hanno riportato il basket allo splendore dei tempi migliori».
E Curry, è il migliore di sempre? «Come detto non è facile fare paragoni con il passato, però lo metto sicuramente nel quintetto ideale di tutti i tempi e in lotta per essere il numero uno».