Affetta da iperandrogenismo, la 32enne è stata costretta ad assumere medicinali così da ridurre il suo naturale livello di testosterone
È stata una corsa lunga, tortuosa, ostacolata da mille e più peripezia, ma alla fine Caster Semenya ha vinto la sua più grande battaglia fuori dalle corsie in tartan. La sudafricana, a cui è stato impedito di partecipare ad alcune competizioni internazionali poiché rifiutatasi di effettuare una cura ormonale così da ridurre il suo naturale (eppure troppo elevato) livello di testosterone, ha visto accogliere il suo appello dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
La Federazione internazionale di atletica (World Athletics) aveva imposto un massimo di cinque nanogrammi per litro di sangue di testosterone a tutte le atlete iperandrogine che ‘desideravano’ gareggiare con le donne nelle specialità dai 400 ai 1’000 m così da proteggere l'integrità delle categorie femminili. Una decisione confermata dapprima dal Tribunale arbitrale dello sport (Tas) e poi anche dalla giustizia elvetica. La 32enne, duplice campionessa olimpica sugli 800 m, è tuttavia stata considerata vittima di discriminazione "fondata su sesso e caratteristiche sessuali. Alla ricorrente non sono state concesse sufficienti garanzie istituzionali e procedurali in Svizzera per consentirle di esaminare efficacemente i suoi reclami", ha asserito la Corte nella sua sentenza.
La decisione della Cedu è soprattutto simbolica: non invalida il regolamento di World Athletics e, verosimilmente, non permetterà (ancora) alla mezzofondista di competere a livello internazionale senza prima sottoporsi a una cura ormonale.