Rientrando in carcere dove scontava l’omicidio della moglie, l’8 gennaio 1995 moriva il pugile argentino, fra i migliori ‘medi’ della storia
Parlando di boxe – lo sport al quale tutte le altre discipline vorrebbero in fondo somigliare, come disse George Foreman – c’è sempre il rischio di scivolare nella retorica, visto che quasi inevitabilmente si finisce per tirare in ballo drammi, fortune sperperate, violenza inaudita, droghe, scommesse, infanzia drammatica all’inverosimile e ovviamente retroterra in cui a farla da padrona è la povertà, se non addirittura di miseria più terribile. Tutti cliché che fanno la gioia dei romanzieri – non a caso il pugilato è spesso corteggiato da cinema e letteratura – ma che, bisogna ammettere, a volte risultano un po’ abusati.
Non è certo però questo il caso di Carlos Monzón, di cui oggi ricorrono i trent’anni dalla morte, e la biografia del quale davvero non necessita – per risultare accattivante – di alcun intervento romanzesco. Gli avvenimenti reali della vita del pugile argentino, infatti, superano di gran lunga quanto avrebbe mai potuto partorire la fantasia dei migliori sceneggiatori sul mercato. Basti dire che la sera di San Valentino del 1988, così farcito di whisky e droghe da fare invidia a Sid Vicious, Carlos ‘Escopeta’ (fucile) Monzón menò la sua terza moglie – Alicia Muñiz – fino a farla svenire, per poi strangolarla e infine, non pago, scaraventarla dal terrazzo di una villa di Mar del Plata.
Verrà condannato a 18 anni di prigione (poi ridotti a 11) e troverà la morte a 52 anni, come detto l’8 gennaio del 1995, in un incidente stradale la sera in cui – dopo aver usufruito di un permesso speciale – stava facendo ritorno dietro le sbarre.
Venuto al mondo poverissimo nel 1942 in un sobborgo di Santa Fe, sul fiume Paraná, e miracolosamente sopravvissuto al tifo quand’era ancor bimbo, nelle sue vene scorreva il sangue dei Mocoví, indios nomadi del Chaco meridionale scampati allo sterminio innescato dalla colonizzazione sudamericana da parte degli europei, gente diseredata e rassegnata a un’esistenza – e a un destino – inesorabilmente segnata. Carlos infatti vedrà morire a causa di varie malattie ben cinque dei suoi undici fratelli, mentre un sesto cadrà per strada, crivellato dai colpi di pistola.
Costante di tutta la gioventù del futuro campione fu la fame più nera, quella che costringeva a rubare il cibo destinato ai consanguinei più piccoli o che spingeva a organizzare razzie nei pollai delle baracche che sorgevano poco distanti dal rifugio in cui la sua famiglia passava le notti, poco più di una capanna. Ma quando i vicini cominciarono a sparare schioppettate ai ladruncoli, è su istrici, tapiri e piccole serpi che finirono per concentrarsi le attenzioni e le energie del giovane Monzón e dei suoi sodali di scorribanda, che sul menù non stavano tanto a sottilizzare.
In un simile contesto – non si fatica a comprendere – il pugilato piovve sul ragazzino come in tempi antichi la manna era caduta dal cielo. E Amilcar Brusa – l’uomo che accettò di allenarlo e di insegnargli tutto ciò che sapeva soltanto quando il piccolo indio acconsentì a restituire il borsone che aveva rubato dalla palestra la prima volta che vi aveva messo piede – divenne suo maestro, consigliere e autentica fonte di salvezza, oltre che presenza fondamentale all’angolo per l’intera sua carriera. Al trainer, infatti, Monzón si legò indissolubilmente: oltre a passargli i rudimenti di ciò che sarebbe diventato il suo mestiere e la fonte di sostentamento per la sua intera famiglia, Brusa fece capire al moccioso che il mondo non era soltanto un luogo di sofferenze e sopraffazioni, ma pure un posto in cui c’era spazio per il rispetto, l’affetto, la considerazione. Nulla in grado di mutare radicalmente la natura del ragazzo, si capisce, ma comunque qualcosa che seppe contenere il suo temperamento quantomeno su binari accettabili, e che gli consentì di conquistare titoli, celebrità e un’enormità di quattrini che nemmeno era in grado di quantificare.
Innestate su un notevole talento innato – e su doti altrettanto naturali in lui come la cattiveria e la spietatezza –, le conoscenze di Brusa fecero di Carlitos un pugile potente, preciso, letale, dotato di gambe da trampoliere e di notevole allungo, mai spettacolare ma estremamente efficace, certamente il miglior peso medio della sua generazione, quella che combatté dalla metà degli anni Sessanta fin verso la fine del decennio successivo.
Cattivo e violento fra le corde come nella vita di tutti i giorni, l’indio Monzón – che dedicava ogni successo a Perón e alla patria – trincava più di Bukowski, dilapidò più quattrini di Mike Tyson e cresimò a sangue tutte le donne a cui si accompagnava. Sul ring, sfidò e mise al tappeto tutti i più grandi fighters di un’epoca in cui la noble art ancora viveva al massimo del proprio splendore: Nino Benvenuti, José Napoles, Griffith e Rodrigo Valdéz, solo per fare qualche nome. Difese poi la cintura mondiale addirittura 13 volte (un primato) e si ritirò, ancora padrone della corona a 35 anni suonati, imbattuto dal 1964 al 1977.
Idolo sportivo incontrastato degli argentini prima dell’avvento di Diego Armando Maradona – più del pilota Manuel Fangio, dell’altro pugile Luis Firpo e del futbolista Omar Sivori –, Carlos Monzón era diventato padre a 16 anni e boxeur professionista a 21, quando intascò una borsa corrispondente a ciò che il suo poverissimo padre avrebbe a stento guadagnato in vent’anni di quel lavoro che svolgeva come fosse una bestia da soma, né più né meno.
Passato dalla palestra al cinema – come in pratica accadeva all’epoca a tutti i pugili di successo, che fungevano da infallibile richiamo sulle locandine di poliziotteschi e pellicole western –, il campione ebbe un’infinità di altri figli, mentre fra le sue conquiste poté vantare nientemeno che Susana Giménez, considerata la Brigitte Bardot latinoamericana. Al pari di tutte le altre sventurate bellezze che gli stettero accanto, alla poveretta toccò la sua quotidiana dose di ceffoni, il mezzo con cui Monzón di solito usava comunicare. E fu proprio per via della liaison con quella vedette dello star system che Mercedes, una delle sue prime mogli, finì per scaricargli la doppietta su spalla e avambraccio, inconveniente che comunque non impedì al campione, neanche tre mesi dopo, di affrontare e sconfiggere il già citato Emile Griffith.
La fama, la grana e la frequentazione del bel mondo – divenne amico di Alain Delon e si portò a letto Ursula Andress e altre dive del grande schermo – riuscirono dunque solo superficialmente a civilizzare e a sdoganare un uomo che, in realtà, altro non sapeva fare che aggredire la vita, perché da essa, fin dall’inizio, era stato messo all’angolo.