Il 28enne pugile di Baden: ‘Mi piace parlare di obiettivi, più che di sogni. A un obiettivo posso lavorare, e prima o dopo ci arrivo. Un sogno è un desiderio'
Una lunga serie di incontri da dilettante (circa 160) alle spalle, la stragrande maggioranza dei quali vinti, sono il trampolino di lancio verso la carriera ‘pro’ che Davide Faraci sta portando avanti alternandosi tra casa (a Baden), la scuola di pugilato che ha messo su con l’amico e manager Toni Barbera (‘Bf Boxing Promotion’, B sta per Barbera, F per Faraci) per la quale lavora, la preparazione atletica svolta in Ticino, e quella tecnico-tattica che affina a Roma.È nato e cresciuto in Svizzera, da genitori siciliani emigrati. Dice, con il sorriso, di avere preso il meglio dalle due anime delle sue radici, quella italiana per gli usi e costumi che sente ancora propri, e quella elvetica, che ha contribuito a farne un atleta rigoroso.Rigoroso e sicuro di sé. Tanto che, quando parla del suo record senza macchia di «tredici incontri vinti, sette dei quali per ko», aggiunge che «presto saranno quattordici». Non solo quelli disputati, beninteso, anche quelli vinti. Il 27 novembre a Firenze difenderà infatti il titolo italiano dei medi massimi che detiene. Un match «per il quale ho buone sensazioni». Non lo dice con superbia o arroganza, bensì con convinzione, con la piena consapevolezza dei propri mezzi, sui quali ha lavorato per anni proprio per emergere anche a livello internazionale.
Bimbo inizialmente dedito al karate per non dare un dispiacere alla mamma che aveva paura che il figlio facesse pugilato, ritenuto pericoloso, il giovane Davide si è avvicinato alla boxe guardando i primi tre film della celeberrima saga di Rocky. «Avevo 6 anni – ricorda Faraci – quando vidi ‘Rocky’, ne rimasi affascinato. Anche perché avevo un debole per le arti marziali in generale, e per i film che trattavano quel tema, come quelli di Bruce Lee. Con il pugilato, però, ho iniziato a 11 anni. Mia madre non voleva che cominciassi con un sport che riteneva violento. Ho fatto karate, per qualche anno. Mi è stato d’aiuto per la mobilità e la coordinazione. Poi, a 11 anni, ho cambiato. Con ‘Rocky 3’ l’amore per i guantoni è definitivamente sbocciato».Come l’ha presa, la mamma? «All’inizio ha fatto fatica a digerire il cambio dal karate alla boxe, ma oggi è fiera di me. Ogni volta che combatto trema, molto più di me. Ma è contenta del mio percorso».
A proposito di film, la vita di Davide Faraci forse non riuscirà a ispirare uno sceneggiatore, ma nemmeno può dirsi ordinaria... «A 18 anni ho combattuto con successo con un tumore maligno al collo, per il quale si sono resi necessari due interventi chirurgici. Confesso che un po’ di timore l’ho avuto, al momento di finire sotto i ferri per la seconda volta, per ben sei ore di intervento. Ho passato momenti molto complicati. Non nego che l’esperienza della malattia mi possa aver fortificato, ma penso che se un ragazzo decide di abbracciare il pugilato, già deve avere una predisposizione particolare, dentro di sé», osserva senza vittimismo.Da dilettante a professionista, per soddisfare l’esigenza di nuovi stimoli. «Combatto dall’età di 11 anni, da dilettante ho sostenuto 160 incontri, sono tanti. Ho preso parte a molti tornei internazionali, anche con la casacca della Nazionale svizzera, per la quale ha combattuto a fianco di Marzio Franscella (Bc Ascona), anch’egli oggi ‘pro’ di successo. Ho messo al collo la medaglia di bronzo agli Europei U22 e a un torneo di qualificazione alle Olimpiadi».Ai cinque cerchi olimpici è legata una doppia amarezza che è però servita per il passaggio al professionismo. «Per due volte mi è mancata una sola vittoria per accedere alle Olimpiadi, sia per l’edizione di Rio, sia per Londra. Un sogno solo sfiorato. Sarebbe stata una ‘prima’ per un pugile svizzero, da quando si deve passare attraverso le qualificazioni. Volevo le Olimpiadi, e per due volte sono rimasto a casa per un soffio. Avevo perso gli stimoli, dovevo darmene di nuovi».
Professionista non significa (per ora) vivere di pugilato. «Ho un lavoro, ma quando inizio la preparazione intensiva in vista di un incontro, stacco per un mese circa e mi concentro sugli allenamenti e sul pugilato. Quando sosterrò match anche più impegnativi, dovrò concedermi periodi di preparazione anche più lunghi».«Di tre mesi», gli suggerisce Antonio Liucci, il preparatore atletico della palestra ‘Tre Castelli’ di Bellinzona al quale si è affidato nelle scorse settimane in vista della difesa del titolo di Firenze. «Ringrazio Antonio per il lavoro che ha svolto con me, e i responsabili della palestra per avermi messo a disposizione la loro struttura. Un grazie lo devo anche a Federico Beresini e Simone D’Alessandri che mi hanno aiutato nella parte tecnica della preparazione».Un lavoro di squadra, finalizzato al match del 27, l’obiettivo a corto termine di una carriera che ne prevede altri, anche più prestigiosi. Testa sulle spalle, Davide intende proseguire per gradi, senza strappi. «Sono campione italiano, e numero 37 al mondo: un primo traguardo l’ho raggiunto. Non penso ancora a una corona mondiale. Mi concentro sulla difesa del titolo, contro Vigan Mustafa, pugile di origini kosovare che a Firenze ‘giocherà’ in casa. È uno sfidante valido. Ha una boxe pulita, con tante variazioni, ma punto a chiudere entro il limite».
E se l’incontro non tradisce le attese, poi si alza l’asticella. «Sono realista, e parlo di obiettivi, non di sogni. I sogni sono desideri, agli obiettivi invece posso lavorare, e prima o poi li raggiungo di sicuro. Non guardo troppo avanti. Ho un titolo nazionale da difendere, poi uno internazionale da affrontare entro la metà dell’anno prossimo. E aggiungo anche un titolo europeo per il quale vorrei combattere entro il 2020».
Caratteristiche tecniche... «Sono anch’io un pugile abbastanza alto, dicono che ho un pugno duro («Ce l’ha, ce l’ha», conferma Liucci, che ne porta i ‘segni’ sulle braccia). Sono anche un picchiatore, ma controllato. Quando si apre uno spiraglio, mi butto, ma lo faccio con raziocinio. Non carico a testa bassa, mi piace curare la tecnica».Pugile di riferimento? «Non ho un idolo in cui mi identifico. Dai grandi campioni di tutte le categorie prendo le cose che mi interessano, e cerco di farle mie, per creare una sorta di profilo di atleta ideale».La vita del ‘pro’ non è esattamente idilliaca: la ricerca dei match, la preparazione, un lavoro da portare avanti, le settimane da dedicare quasi per intero alla boxe, i soggiorni all’estero, o in una stanza d’albergo, comunque lontano da casa... «È un po’ stressante, a volte. E la questione si acuisce con l’avanzare dell’età. Da giovane, non ci fai caso, dormiresti anche per terra. Il campione vero dispone di una struttura che lo assiste, di uno staff che si prende cura di lui. Noi, invece, ci dobbiamo arrangiare. E ci sono anche tanti costi da affrontare. Ecco perché gli sponsor rivestono un ruolo determinante».A 28 anni, qualche domanda sul futuro se la pone? «A quasi 30 anni uno si vorrebbe creare una vita un tantino più... ordinata. Non è ancora una vera esigenza, ma è una questione che piano piano inizio a sentire. Continuo finché sto bene, finché me la sento. La voglia di proseguire c’è, la passione è intatta».Il record è immacolato, la prospettiva di una difesa del titolo è concreta. Sta andando meglio di quanto previsto? «Diciamo che sono al punto in cui immaginavo di essere». Significa che la sconfitta, se dovesse arrivare, sarebbe un brutto colpo? «Non arriva. Non c’è nemmeno bisogno di parlarne».
«Davide lavora bene – conferma Antonio Liucci –. Ci siamo incontrati la prima volta a luglio, abbiamo fatto un piano di preparazione, basato sulla sua condizione. Ancora non conoscevamo la data dell’incontro di Firenze, ma era chiaro che avrebbe dovuto combattere entro la fine dell’anno. Dopo una prima fase di lavoro, abbiamo dovuto alzare i livello, perché i tempi stringevano. Gli inviavo i programmi, lui li seguiva. Ci siamo trovati un paio di volte a Baden, per controllare lo sviluppo del lavoro. Benefici ne ha avuti abbastanza rapidamente, si adatta velocemente all’allenamento. Le capacità atletiche le ha, o le apprende in fretta. Nelle ultime settimane abbiamo affrontato il lavoro specifico in vista del match. Gli sparring sono andati bene, la condizione sta migliorando. Arriviamo all’incontro al top della forma».«Su certe cose – prosegue Liucci – abbiamo dovuto lavorare di più. Del resto anche lui è conscio di avere alcuni aspetti sui quali è chiamato a insistere di più. Altre cose erano invece acquisite. Ci abbiamo lavorato, ma aveva già un livello da atleta di primo piano. La progressione è stata molto rapida, sia perché ha fatto tutto quello che gli ho detto di fare, sia perché conduce una vita sana, anche al di fuori dell’allenamento. Cura l’alimentazione, il recupero e la prevenzione degli infortuni, che sono una componente fondamentale dell’allenamento. Ho riscontrato in lui grande umiltà, predisposizione al lavoro, grande voglia di mettersi al lavoro. Magari, al termine di una seduta, mi chiede il motivo di determinati esercizi, ma non discute mai un allenamento. È importante, perché se tra noi si instaura la fiducia, ho fatto già una grande parte del lavoro, sul piano mentale. Tra noi c’è grande complicità». Margini di miglioramento? «Per la difesa del titolo abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati. Se però parliamo dei traguardi che Davide vorrebbe tagliare nel 2020 in ambito internazionale, allora i margini sono ancora ampi. Più si va avanti, più il lavoro va intensificato anche negli aspetti della sua condizione in cui già eccelle. È una sfida anche per noi preparatori: è gratificante vedere quanto, e quanto rapidamente, il pugile migliora sotto gli impulsi che gli vengono dati».Parte della preparazione, Davide Faraci l’ha svolta in Canada, invitato da Artur Beterbiev, il russo che ha appena unificato le cinture mondiali Wbc e Ibf. «Da lui ho lavorato due settimane. Ho fatto sparring, per allenarlo per il match di unificazione dei titoli mondiali che ha poi vinto per ko. È il numero uno assoluto, è stato un grande onore. Ho imparato tanto».