È possibile argomentare online, portando avanti istanze sociali come quella della moda consapevole, oppure in rete c’è spazio solo per i conflitti?
Sui social media si finisce per litigare e insultarsi sugli argomenti più disparati, dalle relazioni internazionali con la Cina al miglior modo per cuocere la pasta; oppure si perde tempo con contenuti forse divertenti ma certamente futili. La reputazione dei social media è indubbiamente questa: anche se è possibile avere discussioni costruttive o trovare informazioni utili e importanti, prevale l’impressione di “inconcludente chiacchiericcio”, se non di ricettacolo di discorsi d’odio e pregiudizi.
Ogni social media è ovviamente un discorso a sé, per il tipo di contenuti che permette di condividere e per le comunità che vi si creano. E la situazione è anche in continua evoluzione, come mostra il caso di Twitter, la piattaforma da poco ribattezzata “X” e che con la gestione di Elon Musk ha limitato l’accesso ai dati per la ricerca accademica e ha fortemente ridotto la moderazione dei contenuti, con il conseguente allontanamento di molti utenti, tra cui numerose celebrità e diverse istituzioni e aziende – come Balenciaga, Pfizer e Volkswagen – che hanno abbandonato la piattaforma oppure sospeso ogni attività. Eppure anche un social media come Twitter/X può ospitare discussioni costruttive e portare anche avanti – o come vedremo meglio “attivare” – istanze sociali facendo quello che spesso viene bollato come “attivismo da tastiera”.
È il caso della moda sostenibile, un movimento diffusosi soprattutto dopo il crollo, avvenuto nel 2013, del Rana Plaza in Bangladesh, un edificio che ospitava una fabbrica tessile che produceva abiti per importanti marchi occidentali. Nel disastro morirono oltre mille persone, mettendo sotto accusa anche le case di moda per il loro disinteresse verso le condizioni di vita e lavoro di operaie e operai. Il crollo del Rana Plaza ha aumentato la sensibilità sul tema e diverse aziende si sono pubblicamente impegnate a favore della sostenibilità. Impegno messo in discussione da alcuni attivisti proprio attraverso i social media come Twitter/X e Instagram: le strategie argomentative utilizzate per portare avanti la causa della moda sostenibile sono uno dei temi di ricerca di Sara Greco, professoressa straordinaria della Facoltà di comunicazione cultura e società dell’USI, dove è vicedirettrice dell’Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica. Proprio all’interno di questo istituto si è costituito un team di ricerca che include la dottoranda Chiara Mercuri e, grazie a un finanziamento del Fondo nazionale svizzero, la ricercatrice post-doc Emeline Pierre.
USI
Professoressa Greco, come vengono analizzate e valutate queste ‘interazioni social’?
Può sembrare strano cominciare una discussione sui social media citando un autore che precede l’avvento di questi mezzi di comunicazione di millenni; eppure è importante ricordare che già Aristotele, nel Primo libro della sua ‘Retorica’, osserva che ogni forma e mezzo di comunicazione non è che uno strumento, che si può usare “bene” o “male”. Questo vale anche per i social media, di cui (giustamente) si osservano spesso gli aspetti critici ma che possono avere anche una funzione più costruttiva per la società, come accade, ad esempio, nel caso dell’attivismo. Attraverso i social, singole persone e organizzazioni possono portare nuovi punti di vista (ad esempio, sostenere che occorre ricercare maggiore sostenibilità nell’ambito della moda) all’attenzione della società ed esprimere le ragioni dell’importanza di questi punti di vista. In una parola, anche sui social media è possibile argomentare, ovvero impegnarsi in prese di posizione supportate da ragioni.
Certo, siamo spesso delusi dal livello di discussione su Twitter o Instagram perché osserviamo – per esempio – che un singolo tweet non ottiene magari alcuna risposta, o che i commenti a un post sono una somma di considerazioni slegate tra di loro, a volte irrilevanti, fino ad arrivare a fenomeni di violenza verbale. Se allarghiamo lo sguardo, tuttavia, ci accorgiamo che il singolo post o tweet può essere esso stesso una risposta ad altre comunicazioni: gli attivisti, ad esempio, usano i messaggi dei social media per rimettere in discussione la comunicazione dei brand di moda, che avviene attraverso altri canali (siti, profili social…) ai quali non è possibile rispondere direttamente. In questa prospettiva più larga, il singolo tweet cui nessuno ha risposto può in realtà essere profondamente dialogico e argomentativo, perché è esso stesso una risposta argomentata alla comunicazione di altri. In questo senso, i social permettono di arricchire la discussione pubblica di nuovi temi di discussione che, altrimenti, non sarebbero toccati. Se vogliamo, si tratta di un allargamento dei confini della “agorà”, dello spazio del dibattito pubblico: i social permettono di inserire nuovi temi.
Questo vale soprattutto per social media prevalentemente scritti, come Twitter/X, o anche per quelli basati su immagini come Instagram?
Anche su Instagram abbiamo trovato dinamiche simili. L’uso delle immagini e di altri mezzi multimodali (video, musica) ha spesso la funzione di rinforzare l’argomentazione degli attivisti. Si pensi per esempio alle immagini di montagne di rifiuti tessili abbandonate nel deserto di Atacama in Cile, usate dagli attivisti per mostrare efficacemente che la situazione di inquinamento dovuta agli scarti del settore moda è divenuta insostenibile.
Ed è giusto aggiungere un aspetto che ha sorpreso anche noi: è vero che su Instagram l’attenzione è prevalentemente sul visivo, ma gli attivisti scrivono tanto, anche approfittando del fatto che i limiti di testo non sono stretti come su Twitter/X. Non dobbiamo quindi aspettarci una contrapposizione tra immagini e parole, ma piuttosto un’interazione.
Quali strategie vengono utilizzate dagli attivisti?
Direi che gli attivisti usano i social media come un “cuneo comunicativo” che permette loro di inserirsi nella discussione tra i brand di moda e i consumatori e il pubblico in generale. Gli attivisti rimettono in discussione aspetti di cui i brand normalmente non parlano. Un esempio di questo processo è la campagna legata all’hashtag #WhoMadeMyClothes? lanciata dall’organizzazione attivista Fashion Revolution. Questo hashtag si pone come una domanda ai brand da parte dei consumatori: chi ha prodotto i miei vestiti e in quali condizioni di lavoro? Ogni domanda apre un orizzonte; chiedere “chi ha prodotto i miei vestiti?” sposta l’orizzonte della discussione dall’attrattività e convenienza degli abiti alle condizioni di produzione, ovvero a un aspetto che normalmente non viene messo in primo piano dalla comunicazione dei brand.
Apparentemente la discussione avviene su un social media tra un attivista e un brand. Ma l’analisi non si ferma a questo contesto.
In argomentazione, si parla ormai spesso non di dialogo ma di “polilogo” per rappresentare la discussione pubblica, nella quale si incrociano posizioni diverse e attori diversi, che usano, come abbiamo visto, piattaforme diverse per esprimere un punto di vista. Le campagne degli attivisti parlano ai brand ma soprattutto si rivolgono ai consumatori (ai cittadini) e alle istituzioni.
I social media possono quindi essere uno spazio per portare avanti istanze sociali.
Direi di sì. Molti studi si concentrano sui pericoli comunicativi legati ai social media, come la polarizzazione o il discorso dell’odio – fenomeni che è giusto monitorare e correggere, ai limiti dovuti agli algoritmi e agli interessi delle piattaforme commerciali. Tuttavia, i social media sono anche uno spazio pubblico, in qualche modo una “piazza”, dove possono essere discussi temi che altrimenti non sarebbero trattati. Alcuni studi mostrano che l’attivismo digitale può portare al cambiamento sociale e istituzionale; spesso, il cambiamento introdotto con la comunicazione è un cambiamento graduale, che passa dalla presa di coscienza delle persone e delle istituzioni e dall’apertura di nuove domande.
Una rubrica a cura di