L'approfondimento

Ticinesi? Siamo sempre di meno, società in via di estinzione?

Sempre più giovani emigrano in altri cantoni, arrivano sempre meno pensionati confederati e il motore demografico sono gli stranieri, pure in calo

7 febbraio 2020
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Il presente articolo fa parte del "progetto demografia" basato sulle statistiche raccolte e analizzate da un gruppo spontaneo di esperti ticinesi. In una serie di puntate analizzeremo tendenze e realtà demografiche del Ticino.

L'economista Silvano Toppi spiega a La Regione come mai la popolazione ticinese sta calando e quali sono le sfide per il futuro.

Negli ultimi anni, per la prima volta da decenni, la popolazione cantonale è diminuita. Come leggere questo calo?

La risposta è complessa. Bisognerebbe tenere in considerazione mutamenti culturali, ideologici, medici, religiosi, diversi fattori economici. Mi limiterei ad una sorta di paradosso tra economia e demografia. Un tempo, ancora a predominanza agricola, poteva prevalere l’equazione: scarsità o povertà = più figli = più braccia = più lavoro e (forse) solvibilità. Prevaleva anche la credenza di Madre Chiesa: i figli sono una benedizione di Dio e una ricchezza. Dalla metà del secolo scorso, con i Trent’anni gloriosi, con la crescita e l’aumento del reddito pro capite e l’apparire di un’altra ricchezza, quell’equazione si capovolge: più produttività (più produzione per lavoratore) = più reddito distribuito e disponibile = meno figli per avere meno costi = più possibilità individuale di consumo e di svago (o anche di studio e formazione e ascesa nella scala sociale).

Quindi una società più ‘egoica’. Ma sono flussi ciclici, è un trend che evidenzia un calo di attrattività del Cantone o altro ancora?

Non ritengo si possa parlare di una questione di più o meno attrattività del Cantone. È un fenomeno generalizzato, quasi legge, persino nei paesi emergenti (com’era in parte il Ticino). Un economista-demografo (William Easterly) l’ha bollato con una sentenza: “L’aumento del reddito pro capite è un contraccettivo molto più potente di tutti i preservativi”. Con sguardo più ampio, quella che è stata definita “transizione demografica” sembra sul punto di concludersi: solo nell’Africa subsahariana o in una parte del Medio Oriente si trova ancora una fecondità superiore a tre figli per donna. E, fatto forse non trascurabile o più problematico, sono proprio quei paesi che stanno ‘nutrendo’ di uomini la vecchia Europa (non dovremmo ignorare che quasi un terzo della popolazione in età lavorativa nel mondo, con poco lavoro e poco reddito, si trova nell’Africa subsahariana).

La popolazione deve necessariamente crescere? Se non lo fa quali sono i possibili vantaggi e svantaggi?

A me sembra che ci sia una dicotomia che ha pure qualcosa di paradossale. Gli economisti hanno sempre posto un rapporto stretto tra popolazione (demografia) ed economia, crescita. Puntando però su ciò che venne definito l’‘optimum demografico’: né troppo né troppo poco. Difficile da maneggiare. Esemplifichiamo. Una pressione demografica crescente non è compatibile con le risorse limitate, anche perché impera il sovraconsumo. Una demografia debole e continuamente calante va però a sbattere contro due grossi problemi: il primo è che per produrre, creare e quindi distribuire reddito e potere d’acquisto, ci vogliono uomini attivi; il secondo è che l’economia dominante per vivere e crescere chiede sempre maggiore consumo e quindi gente, soprattutto giovane, che ha potere d’acquisto e consuma la produzione, che altrimenti diverrebbe (come capita con danno) sovrapproduzione.

Ma proprio i giovani lasciano il Ticino e i nati nel baby boom si avviano verso la pensione: che cosa implica tutto ciò? 

Il problema che ci attanaglia e ci mette al muro ancora più drammaticamente è il finanziamento di chi esce dal mondo del lavoro, delle pensioni. Chi le pagherà se ci saranno sempre meno giovani rispetto ai seniori che invece aumentano fortemente? In Francia, ad esempio, qualche economista (Jacques Bichot) ha suggerito di indicizzare le pensioni di ognuno sul numero dei suoi figli (beati gli anziani che hanno fatto figli: il tema ritorna!) e qualcun altro (Michel Godet) di rilanciare forti politiche di natalità per riequilibrare le sorti.

È il destino delle regioni di periferia e di frontiera? Quale il ruolo degli stranieri?

Dove sarebbe il prodotto interno lordo ticinese senza l’immigrazione? La dicotomia precedente, lo si ammetta o no, ma i grafici elaborati da Elio Venturelli lo dimostrano senza ombra di dubbio, il Ticino ha cercato di risolverla, per opportunità o stato di necessità, con il ricorso all’immigrazione e soprattutto ai frontalieri. Questi ultimi sono oltretutto sempre stati una massa di manovra facile: sia perché sono serviti a comprimere i costi del lavoro (competitività) sia perché se arriva una crisi (com’è capitato più volte) li lasci oltrefrontiera.

Ma ora anche il flusso di stranieri sembra prosciugarsi, segno di un’economia in crisi? 

Da un punto di vista economico si mantiene una relativa fragilità della struttura dell’economia cantonale, fondata ancora su alcune monoculture (edilizia, con un mercato ormai in tilt, commercio inflazionato e divoratore di territorio) e su una scarsa corrispondenza tra l’impegno nella formazione e la struttura economica che può recepirla. Rilevando però anche che la via d’uscita (immigrazione) è oggi in forte calo e ad essa si aggiunge l’emigrazione sempre più marcata dei residenti. Da un punto di vista del capitale sociale (brutta espressione) c’è una perdita antropologica, alcuni diranno di identità; direi perdita di interrelazionalità, di senso della comunità e del prossimo, di appartenenza a un territorio, che è poi anche sfilacciamento della democrazia e povertà culturale.

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