Lo strano caso di una bufala circolata. E le vere direttive, non solo svizzere, per il triage in caso finiscano i letti in terapia intensiva
Le direttive svizzere per l’ammissione alle terapie intensive, in caso di esaurimenti dei posti disponibili, si basano su un semplice principio: salvare il maggior numero possibile di vite umane. Il criterio determinante è dunque la prognosi a breve termine: come questo sia diventato, sui giornali italiani, “rianimazione negata agli anziani” (La Stampa, da cui tutto sembra essere partito) o “fuori gli anziani dalle terapie intensive se mancano i posti” (Ansa) è un mistero del giornalismo, per non dire della psiche umana. Innanzitutto perché il documento è stato pubblicato a marzo dall’Accademia svizzera delle scienze mediche (assm.ch/fr/coronavirus) e presentarlo come “notizia” sette mesi dopo pare un po’ strano. E poi perché quelle indicazioni non contengono nulla di particolarmente eccezionale, se non la situazione alla quale si riferiscono, di totale sovraccarico dei reparti di terapie intensive: i criteri adottati sono grosso modo gli stessi in altri Paesi, tanto che sulla rivista scientifica ‘Critical Care’ si è addirittura scritto di “international consensus”. La Stampa ha anche interpellato il nostro Franco Denti, presidente dell’Ordine dei medici, che forse preso alla sprovvista ha detto due o tre cose di buon senso, incluso che è un bene aver messo per iscritto le linee guida da seguire. Del resto l’ha fatto anche l’Italia, in un documento (elaborato dalla Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) dove si legge che “può rendersi necessario porre un limite di età”, mentre nelle direttive svizzere troviamo che non ci devono essere “disparità di trattamento ingiustificate legate a età, sesso” eccetera. A voler essere maligni potremmo rispedire al mittente i paragoni con i nazisti arrivati puntualmente nei commenti. Ma non lo faremo, perché la sostanza è grosso modo la stessa: non è che gli anziani valgano meno dei giovani, ma rischiano di avere meno probabilità di miglioramento.
Fatto sta che la “notizia” ha fatto il giro dei social, attirando la sua buona dose di indignazione – per fortuna in parte diretta verso certo giornalismo – prima di venire eclissata dalle indiscrezioni di un nuovo Dpcm a pochi giorni dal precedente. Ma lasciamo decreti e decretini a chi di dovere e torniamo alle linee guida dell’Accademia svizzera delle scienze mediche che nascono in parte in Ticino, dalle discussioni avute tra i vari ospedali su come affrontare in modo uniforme, trasparente e tracciabile la crescente pressione sul sistema sanitario. Lo aveva raccontato Paolo Merlani dell’Eoc durante la presentazione di un incontro della Fondazione Sasso Corbaro: la Società svizzera di medicina intensiva ha chiesto di condividere le conclusioni raggiunte che, affinate, sono diventate il documento adesso tornato alla ribalta. Il criterio principale, come detto, è la prognosi a breve termine: vanno in terapia intensiva prima di tutto i pazienti che più possono trarne beneficio. Sempre che sia d’accordo: al primo posto figura infatti la volontà del paziente, aspetto di nuovo più sfumato nel documento italiano. Altre soluzioni per stabilire la priorità, come il “valore sociale” del paziente (pensiamo a chi ha figli piccoli rispetto a chi non ne ha) sono esplicitamente rifiutate, nonostante alcune di queste soluzioni siano viste di buon occhio dalla popolazione, almeno secondo un sondaggio commissionato dopo la pubblicazione delle linee guida.
L’età non è per sé un criterio di scelta; tuttavia, come accennato, lo è indirettamente: gli anziani hanno in genere più malattie e l’età, per il coronavirus, è un fattore di rischio. Per questo, tra i diversi “criteri a sfavore” di cui tenere conto in caso non vi siano più letti in terapia intensiva, troviamo insieme a diverse malattie gravi anche l’età. Introdotta citando uno studio sui pazienti di Wuhan pubblicato a marzo su ‘Lancet’: con l’aumento dei ricoveri, forse sarebbe opportuno guardare cosa è uscito nel frattempo.