Esistono più varietà di italiano a seconda della regione e situazioni d’uso. La scuola dovrebbe considerarle tutte, anche quella svizzera
Il primo a muoversi alla ricerca dell’italiano perfetto fu Dante Alighieri.
Nel suo ‘De vulgari eloquentia’, il Sommo Poeta setaccia i numerosi dialetti usati della Penisola alla ricerca del “volgare illustre”, che sia inteso da tutti e dotato di dignità letteraria. La sua impresa tuttavia fallisce: quella lingua miracolosa gli sfugge continuamente dalle mani, come un’“odorosa pantera” il cui profumo si spande ovunque ma che non dimora in nessun luogo. Abbandonata la caccia al mitologico felino, oggi i linguisti preferiscono dedicarsi alla valorizzazione delle differenze locali e regionali dei vari idiomi, procedendo non più per esclusione quanto piuttosto per composizione.
È ora l’insieme delle varietà, dipanandosi in un “continuum”, che ambisce ad articolarsi come un’armonia eclettica, rovesciando di fatto il paradigma antico. Eppure, nonostante gli innegabili risultati della linguistica descrittiva, il tema della “norma” rimane una questione tutt’altro che risolta, in particolare quando l’italiano viene insegnato e usato nelle aule scolastiche. Ma che cos’è davvero una norma per la linguistica contemporanea e perché la scuola non può farne a meno?
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Il Sommo Poeta, ‘padre’ del buon italiano
Che la si intenda come l’“uso statisticamente prevalente che i parlanti fanno della lingua”, come la definiva Monica Berretta, oppure come “un insieme di regole, che riguardano tutti i livelli della lingua, accettato da una comunità di parlanti e scriventi in un determinato periodo e contesto storico-culturale”, con le parole di Claudio Giovanardi, la norma linguistica è sempre il risultato di una convenzione e per questo soggetta a cambiamenti anche sostanziali nel tempo e nello spazio.
Detto in modo più semplice, significa che ciò che era giusto in passato non necessariamente lo è anche oggi. E ciò che è giusto in una zona o regione può non esserlo in un’altra. Di fronte a simili posizioni, è facile immaginare che la scuola, alla ricerca com’è di regole stabili e durature, possa coltivare delle comprensibili resistenze. A maggior ragione in Ticino, dove oltre a essere una materia di studio l’italiano è anche lingua veicolare e il docente assume un ruolo di modello linguistico anche quando l’italiano non è la sua materia di insegnamento.
A questo va aggiunto che l’italiano in Svizzera è lingua ufficiale ma di minoranza a livello nazionale, della quale in Ticino e nel Grigioni viene parlata una variante nativa, detta “italiano della Svizzera italiana”. Per molti aspetti, questa è affine all’italiano regionale lombardo o genericamente settentrionale. Ne sono esempi l’uso di crescere per “avanzare”, cornetti per “fagiolini” o la presenza dell’articolo davanti ai nomi, come in “il” Mario o “il” Luigi. Come spesso accade nelle zone periferiche, conserva inoltre numerosi termini arcaici, tra cui ghette per ‘collant’, spagnolette per ‘arachidi’ o fuochi per ‘nuclei familiari’.
Il contatto con le altre lingue nazionali favorisce l’impiego di parole importate dal francese e dal tedesco, come crevettes per “gamberetti”, classeur o classatore per “raccoglitore”, bouillotte per “borsa dell’acqua calda”, evidente per “scontato, semplice”, schlafsack per “sacco a pelo” o zibac per “fetta biscottata”. Inoltre, le specificità politiche e sociali della Svizzera producono nomi di oggetti o concetti che nella realtà italiana sono diversi o del tutto assenti. Si pensi a cassa malati per ‘assicurazione sanitaria’, a consiglio federale per ‘governo nazionale’, a corso di ripetizione per ‘periodo di servizio militare svolto periodicamente’ e a municipale per ‘assessore’. Queste caratteristiche, unite allo statuto ufficiale delle due diverse realtà politiche nazionali in questione, hanno portato gli studiosi a sostenere l’ipotesi di italiano come “lingua pluricentrica”.
In altre parole, l’italiano della Svizzera italiana sarebbe non soltanto una lingua regionale, ma anche una varietà non dominante nazionale, dotata di un forte carattere identitario all’interno della propria comunità di parlanti.
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A colazione, gipfel, zibac e birker accompagnano la trasformazione in una nuova lingua
In un contesto così complesso e articolato, tornando ora al mondo della scuola, come dovrà comportarsi l’insegnante di fronte a parole o espressioni come quelle citate nelle righe precedenti? Meglio accettarle oppure correggerle? Le risposte a queste domande sono l’oggetto di una ricerca nata dalla collaborazione tra il Laboratorio di ricerca storico-educativa, documentazione, conservazione e digitalizzazione del DFA/ASP della SUPSI e l’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana del DECS, che porterà alla pubblicazione di un ‘Repertorio dell’italiano della Svizzera italiana in contesto scolastico’. Ciò consentirà di avere a disposizione un elenco ragionato e commentato di voci ed espressioni caratteristiche della varietà in questione, di cui sarà registrata anche la diffusione al di fuori della scuola e in particolare in generi di scrittura controllata, come quella giornalistica o burocratica. Riflettendo sul contesto d’uso e agendo entro un quadro teorico aggiornato e scientificamente solido, sarà così possibile superare i molti luoghi comuni e le sanzioni fondati su una visione troppo rigida e prescrittiva della norma linguistica.
Le diverse varietà di italiano, e tra di esse anche quella della Svizzera italiana, non devono infatti essere considerate degli ostacoli all’apprendimento, ma piuttosto delle risorse utili per promuovere la riflessione in classe sulla lingua, sui suoi usi e sulle sue funzioni. Proprio la “considerazione delle situazioni reali d’uso della lingua, sia orale, sia scritta, e della sua variabilità” e la “valorizzazione delle diversità legate al retroterra linguistico e culturale degli allievi”, del resto, sono promosse in modo esplicito già oggi nel Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese. Perché a conti fatti, come ebbe modo di scrivere efficacemente Tullio de Mauro in un suo noto volume, “non sa ben parlare chi non sa esprimersi altro che con interiezioni e gerghi locali o specialistici; ma nemmeno sa ben parlare chi si esprime sempre e solo secondo uno standard libresco, ‘come un libro stampato’, secondo la felice espressione dei compagni di Pinocchio”.
In collaborazione con il Dipartimento formazione e apprendimento/Alta Scuola Pedagogica