Retorica e bugie per una festa malinconica, in cui lo Zar celebra il passato e ricorda sempre più gli ingialliti gerarchi del secolo scorso
Su ciò che avrebbe detto Putin il 9 maggio, "giorno della vittoria", si affollavano da settimane le attese più ansiose: dall’annuncio formale dello stato di guerra con l’Ucraina sino alla mobilitazione generale. Ebbene, il presidente russo non ha detto nulla che non si sapesse già: pensava di annunciare grandi successi, ma si è accorto di non avere mirabilia da vantare. L’unico, mesto comunicato è stato che il presidente ha firmato il decreto con il quale dispone gli aiuti a favore dei caduti e feriti dell’"operazione militare speciale" (leggasi: guerra).
L’intero discorso di Vladimir Putin si è svolto in parallelo tra i fatti del 1945, la vittoria su nazismo e fascismo (che ci furono davvero), e la guerra di oggi contro il fascismo in Ucraina (che vede solo lui). Come i soldati sovietici combatterono per la fine del nazismo, ha detto, così i militi russi stanno lottando a fianco dei combattenti del Donbass per la sicurezza della patria, perché non torni il nazismo – bisogna ricordare che l’esercito russo, per la retorica del regime, non è in Ucraina per propria iniziativa, ma a supporto delle forze armate delle repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk.
Nel lungo elenco di coloro alla cui memoria la Russia china il capo, Putin ha incluso anche le vittime dei fatti avvenuti nel 2014 nella Casa dei sindacati di Odessa. Durante gli scontri fra manifestanti, all’inizio delle rivolte nell’Ucraina sudorientale, perirono alcune decine di dimostranti. La vulgata russa presenta l’accaduto come omicidio volontario di manifestanti filorussi per mano di "neonazisti" ucraini e lo erge a paradigma di tutte le manifestazioni avvenute in Ucraina nel 2014. In realtà, in otto anni, né i tribunali ucraini né le numerose istanze internazionali che si sono occupate del caso sono riuscite ad acclarare le responsabilità.
Militari durante la parata (Keystone)
L’Occidente sminuisce il ricordo della Seconda guerra mondiale, ha precisato Putin, e gli Stati uniti minacciano anche i loro alleati, che non ne sono consapevoli. La Russia, invece, è "un Paese diverso, con un altro carattere: non rinuncia all’amor patrio, alla fede, agli usi antichi e ai valori tradizionali, al rispetto per i popoli che compongono lo Stato multietnico russo". Quando evoca "il terrorismo alimentato dall’esterno per dividere il nostro Paese", Putin sembra tornare agli inizi della sua presidenza. Si riferisce alla guerra cecena, che lo impose all’attenzione dei russi e del mondo come "uomo forte" capace di risolvere un conflitto che sembrava incontenibile. La stessa retorica, però, si può applicare a qualunque altra delle numerose tensioni etniche che punteggiano la Russia, che il regime attribuisce sempre ad agenti esterni.
Nonostante le divergenze nelle relazioni internazionali, ha vantato Putin, la Russia si è sempre impegnata per costruire un sistema di sicurezza internazionale equo. Ha cercato un dialogo sincero per trovare soluzioni ragionevoli, nell’interesse reciproco. Il tentativo fatto da Mosca di concordare con l’Occidente delle garanzie di sicurezza non ha funzionato, lamenta Putin – si riferisce alle deliranti richieste avanzate da Mosca nel dicembre 2021, in cui esigeva la neutralizzazione di un’intera fascia di Paesi dal Baltico a Mar Nero, per corrispondere alle proprie arbitrarie domande di tutela. L’Occidente, però – continua Putin – aveva un altro piano: attaccare il Donbass e il nostro territorio storico, inclusa la Crimea. Qui Putin si rifà alla sua dottrina, secondo cui tutti i territori che furono dell’Unione sovietica e dell’Impero russo sarebbero in realtà "territori russi fuori dalle frontiere della Federazione russa", in trepidante attesa della riconquista redentrice da parte di Mosca.
Per giustificare le operazioni in Ucraina, Putin insiste sull’elemento retorico che potremmo chiamare necessitas: l’intervento causa vittime (non dice quante), ma era "necessario" per salvare la Russia dal pericolo dell’aggressione da parte dell’Occidente, cresciuto ogni giorno di più. Lo scontro con i "neonazisti" ucraini era inevitabile, gli Stati Uniti lavoravano a un mondo di cui vogliono essere dominus esclusivo. Kiev, addirittura, preparava il riarmo nucleare.
Vladimir Putin visto da un artista lettone (Keystone)
Agli undici minuti del discorso segue la parata militare. Sulla Piazza Rossa i soldati marciano al passo dell’oca, ma in Ucraina marciano sul posto. In due mesi e mezzo di guerra, l’avanzata nel Donbass resta modestissima, rispetto alle zone già occupate prima del 24 febbraio. Intorno alla città di Charkiv le artiglierie russe indietreggiano ogni giorno di più, pressate dal contrattacco dell’esercito ucraino. L’unico successo che la Russia può vantare è il controllo sulla regione di Cherson, che permette di realizzare il collegamento di terra con la Crimea. L’instaurazione di un’amministrazione occupante, più volte annunciata, si scontra però con la resistenza passiva della popolazione, sebbene i russi possano contare su alcuni collaborazionisti ucraini. L’avanzata su Mykolaiv verso Odessa e la Transnistria si mostra, al momento, impossibile.
Si può aggiungere una considerazione generale. La festa del 9 maggio è il malinconico apogeo di una visione di società russa fondata solo sulla memoria del passato. Mette in luce una delle peggiori carenze del regime di Putin, da vent’anni a questa parte: l’assenza della parola "futuro" e di un progetto di società capace di motivare dei giovani di venti, trenta, quarant’anni a sentirsi parte di un Paese che li esclude da Internet e fa sfilare in uniforme militare persino i bambini, infilati in buffe sagome di cartone a forma di carro armato.
La cerimonia si chiude, la verсhuška (dirigenza) russa si allinea con senile rigidità intorno al Mausoleo di Lenin; le facce sono di Putin, Sobjanin, del patriarca Kirill… assomigliano sempre di più ai volti ingialliti dei vecchi gerarchi sovietici nei filmati di cinquant’anni or sono.