Il 'no mask in chief' col suo negazionismo ha di certo contribuito alla diffusione di un contagio che sfiora i tremila morti al giorno per Covid
Trump è Trump: non staremo qui a ripetere la litania dei suoi innumerevoli, vistosi, pessimi difetti. Ma peggio di lui possono essere i suoi tenaci ammiratori. Anche alle nostre latitudini. Per esempio quelli che partecipando a un dibattito televisivo di qualche giorno fa ripetevano la solita solfa, soprattutto su due temi: “Trump, perché è uno che mantiene le promesse”, e Trump, “perché ha spezzato le catene della globalizzazione”. Come se il punto non fosse proprio in quelle promesse, che ne hanno fatto la presidenza più divisiva della moderna storia americana, e come se non stessimo assistendo agli effetti di una eredità trumpiana che sul sovranismo smaschera troppe facilonerie partigiane.
Andiamo al concreto. Il “no mask in chief”, che continua a organizzare comizi e feste alla Casa Bianca senza l’uso della mascherina, col suo negazionismo ha di certo contribuito alla diffusione di un contagio che sfiora i tremila morti per Covid al giorno, pari alle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle. Sul piano economico-sociale, poi, ecco una notizia che dice molte cose: un recente rapporto – commissionato dall’ex candidato presidenziale democratico Bernie Sanders, e a quanto ci risulta non contestato – rivela che “il 70 per cento dei lavoratori americani adulti (impiegati a tempo pieno) è iscritto al Medicaid, il programma pubblico che fornisce assistenza ai cittadini con redditi bassi, e al programma alimentare per i più poveri”. Colpa degli effetti del Covid? No, visto che il sostegno economico immediato non è mancato, anche se si sta velocemente esaurendo. Colpa invece di una politica favorevole ai ricchi (generosamente de-tassati), che, come proprietari di grandi società e aziende, fanno miliardi di profitti e lasciano che sia lo Stato a garantire l’aiuto ai meno abbienti. Situazione che rivela come i tanti nuovi impieghi vantati siano in realtà troppo fragili per garantire la rinascita della classe media.
Veniamo alla globalizzazione. Il bersaglio grosso, e per molti aspetti legittimo, è la Cina (a cui già Obama guardava in termini antagonisti con la strategia “Pivot to Asia”): ma invece di contrastare le inaccettabili pratiche commerciali di Pechino attraverso un’alleanza rafforzata con gli europei, i dazi di “The Don” sono serviti anche a “bombardare” gli ex alleati del Vecchio continente, trattati da rivali e non da partner. Risultato: l’Europa ha comunque registrato una storica svolta unitaria (con il varo del Recovery Fund, su cui difficilmente potrà fare marcia indietro); e, soprattutto, la Cina (unica nazione a uscire dalla pandemia col Pil in attivo) ha sottoscritto un accordo di libero scambio con undici nazioni asiatiche più quattro paesi alleati degli Stati Uniti (insieme fanno oltre due milioni di abitanti, e circa un terzo dell’economia mondiale). Uno sberlone per Trump. E, in generale, un problema in più per le economie occidentali: chiamate a ricucire la tela dei loro rapporti, lacerata dal tycoon negli ultimi 4 anni, e coordinare la strategia cinese (operazione tutt’altro che scontata).
Si dice che vi sarà un trumpismo anche senza Trump. È possibile. E sarà uno dei tanti problemi di Biden. Ma per ora vediamo per lo più pozzi avvelenati. Scavati economicamente e socialmente, politicamente e strategicamente dal campione mondiale del sovranismo.