Vittoria scontata per il taglio dei parlamentari. Destra avanti nelle elezioni regionali
Italiani! Abbiamo ottenuto ciò “che aspettavamo da trent’anni”, come ha detto un gongolante Luigi Di Maio commentando l’esito del referendum costituzionale che ha approvato il taglio del numero di parlamentari. Lui si ricorda bene: trent’anni fa ne aveva quattro.
Comprensibile l’euforia dei Cinque Stelle: segnare a porta vuota (tale era l’impegno che li attendeva, dopo avere fatto un testone così agli italiani sulle malefatte della “casta”) dà una certa soddisfazione a chi non può prendersene altre, si vedano i risultati degli stessi grillini nelle elezioni regionali che si sono tenute contestualmente al referendum. Ed è piuttosto sull’esito di queste ultime che andrà sviluppato un ragionamento politico più approfondito. Perché se il sì al referendum equivale a una scossa sismica dopo la quale bisogna mettere mano a una ricostruzione, gli effetti sullo scenario politico nazionale prodotti dal voto regionale condizioneranno quella ricostruzione, tempi e indirizzi che prenderà.
O non prenderà: non è il caso di farsi illusioni. Sin dalle prime proiezioni (a scrutinio ancora in corso) si è confermata la diffusa preponderanza di una destra sempre più estrema, ma non ancora capace di cacciare la post-post-post-sinistra dalle sue roccaforti storiche. In questo senso è Matteo Salvini a uscire scornato (la scommessa toscana, dopo quella emiliana, l’ha persa lui), mentre la camerata Giorgia Meloni rivendicherà maggiore voce, forte dell’affermazione del suo Francesco il-duce-ha-fatto-anche-cose-buone Acquaroli.
Un quadro a cui danno forza le vittorie del berluscone Giovanni Toti in Liguria contro un degnissimo Ferruccio Sansa (lasciato solo da quel centrosinistra che l’aveva candidato) e di Michele Emiliano in Puglia, davanti all’ex ministro berluscone Raffaele Fitto, trasparente dimostrazione, quest'ultima, della marginalizzazione di Berlusconi e dei suoi giovanotti nell'ambito di una destra egemonizzta dalle componenti più estreme.
Esulano da questo discorso, per ragioni evidenti, Luca Zaia e Vincenzo de Luca, plebiscitati in Veneto e Campania probabilmente più per il profilo che si sono dati che per l’essere uno leghista e l’altro pd (tanto che Salvini, il cui nazionalismo finirà per collidere con i separatismi da cui originò la Lega, si sarebbe “accontentato” di uno Zaia vincente, piuttosto che dominatore).
E bisogna comunque aggiungere che la presenza di un candidato Cinque Stelle “contro” quello del Pd (con tutto che in Parlamento sono parte della stessa maggioranza) ha probabilmente compromesso le chance di Mangialardi nelle Marche contro Acquaroli, mentre in Campania e Puglia ha soltanto impedito che la vittoria dei candidati di centrosinistra fosse ancora più ampia. Mentre la loro generale irrilevanza in contesti locali non è sfuggita ad alcuno.
Dunque un tre a tre, come scrivono le agenzie ricorrendo al gergo calcistico, che in effetti sarebbe un quattro a tre, per la destra, contando anche la Val d'Aosta. E una vittoria scontata per i grillini fautori del "taglio", che in realtà giocavano da soli.
Capire ora che cosa ne deriverà potrebbe richiedere tempo. Quanto al referendum, al di là delle tronfie dichiarazioni di Di Maio il lavoro dovrà compiersi su una legge elettorale che non solo assicuri una giusta rappresentanza a tutte le forze politiche del Paese (con una prima discriminante tra sistema maggioritario e proporzionale), ma riequilibri anche la rappresentanza territoriale ridisegnando i collegi elettorali. E fin qui ce la possono fare.
Ben diverso sarà agire sulla formazione e sulla selezione di una classe politica che, proprio perché ridotta nel numero dei suoi elementi in parlamento, dovrebbe almeno essere riportata alla decenza. Un processo che potrebbe risultare ben più ostico per formazioni politiche del tutto sprovviste, anzi nemiche di qualsiasi spessore culturale o coscienza politica o civica. Sprovvisti del vocabolario necessario a dare forma a un pensiero politico, e perciò agenti e oggetto al tempo stesso di disegni altrui. C'è da tremare a pensarle all'opera di un'altra riforma costituzionale, che pure, a questo punto, necessiterebbe.
È più probabile che a prevalere, nell'immediato, siano alcuni ben noti riflessi condizionati. Secondo tradizione, già ieri in serata, dalla Lega e da Giorgia Meloni stessa ("diventa necessario ridare al più presto la voce agli italiani affinché ogni forza politica possa presentare le proprie proposte di riforma") è partita la richiesta di convocare nuove elezioni legislative sostenendo che l'attuale parlamento è stato delegittimato dal sì al taglio dei suoi membri. Ma dimenticando forse che nella stessa formulazione della riforma la sua applicazione è prevista contestualmente alle prime elezioni successive al referendum. Edoardo Rixi, Lega, si è spinto più in là, sostenendo che non potrà essere l'attuale parlamento a eleggere il prossimo presidente della repubblica.
Non bisogna farsi impressionare. Una cosa sono le dichiarazioni rilasciate a una selva di microfoni in attesa agli ingressi delle sedi di partito, un'altra la chiarezza e l'onestà della riflessione. E tutti avranno da esercitarsi. Ai grillini, passata la sbornia da "taglio" toccherà considerare il crollo inarrestabile che va avanti da più elezioni; al garrulo Renzi converrà chiedersi se una media di voti da Partito liberale alla fine della prima repubblica lo autorizza ancora a pretendersi king maker; al pettine dei berluscones arriverà il nodo di una impossibile successione a un ottuagenario stracotto; alla Lega risulterà inevitabile interrogarsi sulla presunta imbattibilità di Salvini; Meloni dovrà uscire dalla recita; e al Pd toccherà risolversi tra identità e quella "responsabilità" che lo ha inchiodato alle sorti di Giuseppe Conte quasi fossero le proprie. Le riforme, che riempiono tante bocche, ptranno attendere.