La devastante esplosione di Beirut colpisce un paese prossimo al fallimento
Se pure, come è sperabile, l'esplosione che ha devastato Beiurt si confermerà di natura accidentale, non si può non considerare quanta sventura patisca il Libano, da decenni il fusibile dell'alta tensione regionale. Un destino, una dannazione, che ne ha fatto teatro di dispute altrui, riducendolo ricorrentemente in brani. Ciò che gli tocca anche quando è il caso (apparentemente) a metterci mano. Il materiale esplosivo stoccato nei pressi del porto, poi esploso, è stato indicato come nitrato d'ammonio, ma si sospetta che vi fossero invece missili in dotazione a Hezbollah. Nell'uno e nell'altro caso, materiale bellico di cui si conoscevano, o si sospettavano provenienza e destinazione.
E se pure è un caso, non sfugge la coincidenza che Beirut sia saltata in aria a pochi giorni dalla sentenza attesa dal tribunale dell'Onu sull'attentato che uccise l'ex primo ministro Rafik Hariri, il 14 febbraio 2005, cui mandante è universalmente considerata la Siria.
A questo proposito ci si potrebbe stupire che del Libano non sia stato fatto un boccone nel corso del conflitto siriano. Una spiegazione potrebbe essere che il sisma geopolitico che ha devastato l’area tra Damasco e Baghdad fosse tanto grande da far perdere di interesse il Paese. Oppure, e forse è più plausibile, perché un Libano conviene a tutti. Salvo ai Libanesi, naturalmente, che pagano la voracità degli appetiti altrui, ma soprattutto la spartizione lungo linee confessionali del potere. Una formula di compromesso concepita per riconoscere e governare la radicale conflittualità delle componenti nazionali, ma rivelatasi l'impedimento principale alla formazione di uno spirito nazionale, con l’aggiunta di avere cementato una trasmissione del potere per via dinastica o clanica. E il Libano conviene ai paesi nemici o amici che se lo disputano non per conquistarlo, ché non converrebbe, ma per farne di volta in volta vasca di decantazione di tensioni interne o laboratorio per testare la capacità bellica altrui.
Non fossero bastati i quindici anni di guerra civile, Israele (il cui esercito nell'82 arrivò alle porte di Beirut) ha fatto ripetuto ricorso all'invasione del Libano per alleggerire le pressioni sui propri confini e sfogare le contraddizioni della propria politica. Mentre la Siria, che lo ha sempre considerato un proprio protettorato, vi ha dislocato a lungo i propri soldati, e per andarsene ha preteso un prezzo di sangue e sottomissione altissimo. A sua volta, l'Iran vi mantiene una propria guarnigione conosciuta come Hezbollah, mentre i sauditi erano arrivati a sequestrare nel novembre 2017 il primo ministro Saad al Hariri per costringerlo a più miti consigli. E l'elenco potrebbe continuare, fornendo non per forza eventuali mandanti di un ipotetico attentato, ma la cornice di estrema volatilità in cui l’evento si è prodotto.
Parliamo oltretutto di un paese in cui da mesi la protesta per la gravissima crisi economica (giusto l’altro ieri, Save the children ha avvertito che mezzo milione di bambini rischiano la fame nella sola area di Beirut, dove le interruzioni di elettricità e di fornitura idrica sono ormai la normalità) ha finito per assumere un carattere espressamente politico, chiamando in causa la spartizione confessionale del potere e la corruzione che ne deriva, e contestando la posizione di stato nello stato detenuta da Hezbollah.
Che dunque si sia trattato di un incidente o (benché sinora non ve ne siano prove) di un atto deliberato, il risultato è lo stesso: del Libano si parlava ormai di un Paese in ginocchio, dall’altroieri è steso.