Si potrebbe dire che in Baviera l’estrema destra è stata rimessa al suo posto
Si potrebbe dire (con qualche ragione, stando alle nude cifre) che in Baviera l’estrema destra è stata rimessa al suo posto: da pronosticato secondo partito, ha dovuto accomodarsi dietro i Verdi e i Freie Wähler. Ma resta il fatto che il “posto” di Alternative für Deutschland è ormai indiscutibile nella politica tedesca, ed è marginale solo se lo si considera col criterio delle percentuali di consenso. In realtà, la sua forza, come avviene nel resto d’Europa, risiede nell’avere non determinato la crisi dei grandi partiti-massa, ma nell’averla saputa sfruttare, incuneando la propria ideologia nelle crepe di un sistema ormai logorato. La prima lezione dovrebbero trarla coloro che, da posizioni di vertice dei partiti tradizionali, cercano di associarsi al discorso nazionalista pur vestendolo di una rispettabilità che ancora presumono di poter vantare. Horst Seehofer, che la scorsa estate fu vicino a far cadere il governo di Grosse Koalition di cui pure è ministro di punta, qualche domanda se la farà.
L’altra lezione è che dove esiste una alternativa all’estrema destra, gli “scontenti” vi prestano attenzione, dando credito a chi la propone. Il successo dei Verdi bavaresi, filoeuropei e non ossessionati dall’immigrazione, ne è almeno in parte la conferma. Un successo e una responsabilità, naturalmente, giacché la capacità di intercettare il voto di protesta è nulla, se non supportata da capacità progettuale, solidità del discorso e leadership. È, per non restare in Baviera, quanto capitato ai 5Stelle in Italia, capaci di tradurre in voti i vaffa del loro guru, ma così inetti da venire fagocitati dal nuovo campione dell’estrema destra in camicia verde.
Terzo viene il tracollo della sinistra “storica”. L’Spd sta subendo la sorte dei socialisti francesi, della sinistra italiana (non si confonda, in proposito, quel 20% a cui si aggrappa il Pd in Italia: è la somma di voti democristiani e di brandelli di ciò che fu il Pci), in parte delle socialdemocrazie nordeuropee e del Labour pre-Corbyn. Un esaurimento storico di senso, prima ancora che di linguaggio e di leadership, che enfatizza la responsabilità di chi, dall’interno, ha concorso a sopprimerlo, e l’urgenza drammatica di trovarne uno adeguato a questi tempi calamitosi di “realismo capitalista”.
Infine, la convitata di pietra di tutto questo parlare: Angela Merkel. Alla vigilia del voto bavarese la tenuta del suo governo (complice il già citato Seehofer) veniva subordinata al risultato dell’estrema destra. In realtà, ad abbreviare la durata del suo quarto mandato alla Cancelleria potrebbe essere proprio il crollo dell’Spd: dopo avere accettato il ruolo di socio di minoranza nella Grosse Koalition per l’ennesima volta e al prezzo di una divisione interna gravissima, i socialdemocratici potrebbero risolversi a lasciarla. Da perdere non hanno davvero più nulla.
Che cosa poi significherebbe una crisi seria in Germania, e come si proietterebbe su un’Europa da tempo sprovvista di una leadership riconoscibile e salda (Macron, oltre a non averne la statura, è per giunta rimasto solo) è un interrogativo che può preoccupare chi ne ha a cuore le sorti; un incentivo a demolirne le già compromesse fondamenta per quelli che “questa Europa finirà a maggio”.