“Non è la Germania di Weimar – si dice – e non sono gli anni Trenta”. Va bene, non sono gli anni Trenta e a Berlino siede ancora Angela Merkel, ma che questo sia un sufficiente motivo di sollievo, no.
Certo, l’Europa non è reduce da una Grande guerra, non ci sono trincee in cui risuonano le voci di milioni di morti, né risentimenti a presidiare frontiere ancora insanguinate. Ma analoghe, se non identiche, lacerazioni – qui in forma palese, là sottotraccia – percorrono le società, paradossalmente anche quelle che vantano un tasso di benessere niente affatto disprezzabile, producendo un livore che quando è rivolto alle élite le sommerge di discredito. Élite ciniche o “sonnambule”, indegne o inadeguate.
“Allora” da un simile brodo di coltura germogliarono i fascismi. Oggi basta volgersi attorno, e solo una deliberata cecità potrebbe impedire di vederne l’avvento, li si chiami come si vuole. Basterebbe poi sostituire l’aggettivo islamico a quel “pericolo” che novant’anni fa era rappresentato dal bolscevismo, per comprendere l’indulgenza crescente con cui si guarda alle loro espressioni di piazza o nelle sedi istituzionali in cui già siedono.
È in questa Europa che la Germania “di” Angela Merkel sperimenta una delle crisi politiche più preoccupanti degli ultimi decenni, secondo alcuni dell’intera sua storia democratica. Il fallimento dei negoziati per la formazione di un nuovo governo – un evento che rientrerebbe nelle dinamiche politiche ordinarie di ogni società democratica – è stato inteso quasi come l’indizio più certo della rottura di un ordine basato sulla figura stessa della cancelliera.
Per carità: assegnare a questo passo falso il significato di pietra tombale sulla carriera politica di Merkel è quantomeno affrettato. Un recupero dei riottosi potenziali alleati di governo è ancora possibile; né è assolutamente scontato che eventuali nuove elezioni rovescerebbero la cancelliera; e se pure ciò avvenisse sarebbe soltanto la conferma che fortunatamente l’eternità non è una categoria politica. In tal caso dovremmo riconoscere di avere frainteso una parabola discendente con una ponderata strategia di opacità e attesa.
Eppure, mai come in questa circostanza le dinamiche interne alla Germania si riflettono, condizionandola, sull’intera scena europea. La vittoria elettorale di Angela Merkel era stata accolta quasi ovunque come una conferma della solidità di alcuni “fondamentali” o almeno come un approdo sicuro per i naufraghi di un’Europa alla deriva. E in parte lo era, lo è, senza dubbio. Nel deserto di figure degne di accreditarsi come statisti, non restava che “Mutti”.
Ora si sa che anche lei potrebbe andarsene. Vittima, in patria, della propria stessa arte di fagocitare istanze e programmi altrui, finendo per svuotare di argomenti i discorsi degli avversari più prossimi, senza tuttavia sostituirvi una proposta forte a sufficienza. E vittima, dall’altro lato, dell’avvento – inatteso, negato anche di fronte all’evidenza – di una opposizione che non ne contesta solo le politiche, ma la legittimità stessa. Cancelliera tedesca, sì, ma in questo del tutto simile a un qualsiasi capo di governo nel resto d’Europa. Di quei pavidi governi che dietro la sua sagoma cercavano riparo o che la indicavano come bersaglio grosso e più facile da colpire. Se dunque gli anni non sono i Trenta del secolo scorso, anche oggi una implosione politica della Germania facilmente trascinerebbe con sé più di una capitale. Non verso una guerra, no, ma verso qualcosa che non sappiamo.