C’è da essere pessimisti, sì, dopo il buon risultato dell’estrema destra nelle elezioni politiche in Svezia
C’è da essere pessimisti, sì, dopo il buon risultato dell’estrema destra nelle elezioni politiche in Svezia. Non solo per l’ennesima affermazione di un partito che rinnova il più inquietante retaggio del Novecento europeo, ma soprattutto per come il suo successo e dunque la sua ‘minaccia’ possono prestarsi a fare da alibi a politiche che si pretendono rispettabili ma ne ricalcano la propaganda.
Basta allargare lo sguardo all’Europa per averne conferma. Le destre estreme avanzano quasi ovunque, e anche dove non sono al governo hanno ormai acquisito una forza tale da condizionarne le politiche. Soprattutto nei Paesi governati da partiti della destra “democratica”, la più soggetta a esserne influenzata.
Si pensi all’Olanda, o al caso ancora più clamoroso del Regno Unito, dove i Tories, per reggere il passo dell’Ukip sull’antieuropeismo, si sono spinti ben oltre le proprie capacità di gestione della Brexit. O si guardi ai casi ancora più gravi di Polonia e Ungheria, dove partiti nominalmente di centro (Fidesz, dell’autocrate Orbán, ha alla propria destra i neonazisti di Jobbik), una volta installati al potere, hanno adottato e sistematizzato, senza infingimenti peraltro, politiche da stato schiettamente autoritario. Ed è un caso di scuola quello austriaco, dove i popolari sono ormai difficilmente distinguibili dall’estrema destra dei “liberali” (forte del 26%) con i quali sono al governo. La peculiarità italiana, infine, è tale ma non del tutto: non va dimenticato infatti che gli eredi di Salò e la Lega furono introdotti al governo dal centrodestra “democratico” di Berlusconi; e che ancora nelle ultime legislative lo stesso Berlusconi ha creduto di poter gestire il fascioleghista Salvini, finendo per esserne fagocitato, come peraltro è accaduto ai grillini, egemonizzati dallo stesso Salvini che dalle urne era uscito con un risultato ben inferiore al loro.
Non diremo perciò che le destre “democratiche” portano la responsabilità di avere favorito l’istituzionalizzazione dell’estremismo, o che solo su di esse ricade l’onere di doverlo tenere a distanza. Ma è difficile ignorare quanto si sia ridotta la distanza tra le rispettive posizioni, quando pure resti netta quella ideologica, come conferma l’imbarazzante convivenza nel Partito popolare europeo di democristiani con ancora qualche motivo per ritenersi tali, e gli Orbán e affini.
Un test di quanto questo quadro sia attendibile saranno le elezioni regionali di ottobre in Baviera. In uno dei Land più conservatori di Germania, il tentativo di fermare l’emorragia di voti a favore di Alternative Für Deutschland sta spingendo sempre più a destra la Csu (l’altra metà della Cdu della cancelliera Merkel) fino a mettere in forse la sopravvivenza del governo federale. Una strategia obbligata, secondo alcuni, un ammiccamento all’ideologia Blut und Boden che ancora cementa il suo elettorato, secondo altri.
Il tutto a pochi mesi, ormai, dalle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento (maggio 2019). L’ancora scoordinato fronte dei nazionalismi continentali non possiede una strategia (a meno di intendere come tale i servili baciamano a un personaggio ributtante come Steve Bannon, impegnato nella propria campagna d’Europa), ma è prevedibile che una qualche lista comune riuscirà a metterla insieme, incollando le reciproche divergenze, future conflittualità, con un bostik formidabile come la lotta all’immigrazione e alla stessa Europa.
Chi le seguirà su questa strada (una tentazione non estranea a certa sinistra) asseconderà il loro successo.