La gestione della cosa pubblica tocca tutti noi. Per questo è necessario riflettere sulla qualità dei nostri politici
La gestione della cosa pubblica, della polis, ci tocca tutti e mi pare più che opportuno, direi addirittura necessario, riflettere, qui come altrove, sulla qualità dei nostri politici
L’esercizio non è dei più semplici perché la sfiducia nella classe dirigente è crescente e il giudizio negativo appare piuttosto scontato. La voglia di democrazia diretta, che scavalca ogni rappresentanza intermedia, è una conseguenza dell’opinione diffusa che i politici non rappresentano più i cittadini: anteporrebbero la convenienza personale e gli interessi particolari al perseguimento del bene collettivo. Sono questi gli argomenti forti (con qualche fondamento) del populismo, e sta qui una delle cause della profonda crisi del modello di democrazia rappresentativa.
Il discredito incontestabile della politica ha generato il discredito della classe politica. Sarebbe ingiusto generalizzare e dimenticare i bravi politici, ma sono pochi e purtroppo gli esempi di incompetenza e di mala gestione abbondano e i cittadini assistono allo spettacolo: è comunque necessario distinguere fra i politici veri – quelli consapevoli del loro ruolo di responsabilità collettiva – e i politicanti che la politica la usano, senza capacità e attitudini, per perseguire ambizioni e vantaggi personali. Sono loro, i politicanti, ad alimentare la famosa “politique politicienne”, cioè la politica per i politici e non per i cittadini. Negli ultimi tempi anche il Ticino politico si è sforzato, riuscendoci, di dare qualche cattivo esempio: in più di un caso si è avuta la sgradevole impressione che la doverosa assunzione di responsabilità di fronte ai cittadini, al di là dei proclami di circostanza, non sia la priorità per una fetta cospicua della politica e infatti coloro che parlano di etica pubblica non sono particolarmente graditi. Quello della classe politica è un problema delicato ed oggi, al cospetto di certe indecorose sceneggiate in corso d’opera un po’ ovunque, è piuttosto complicato non dico promuovere la “virtù dei migliori”, ma perlomeno salvaguardare la decenza e la dignità della politica. Oggi, per ammissione di tanti, è il tempo della mediocrità eletta a virtù, e i “migliori” scarseggiano.
Luigi Sturzo, a cavallo degli anni 50 del secolo passato, osservava che son troppi coloro che pensano che la politica sia un’arte che si esercita senza preparazione adeguata; un suo illustre contemporaneo, Luigi Einaudi – economista di fama, presidente della Repubblica italiana dal 1948 al 1955 –, la pensava allo stesso modo; alludendo ai suoi colleghi politici constatava che molti ritengono di risolvere i problemi senza alcuna conoscenza: “Come si può deliberare senza conoscere?” si domandava. Certo è che la schiera di coloro che decidono e promettono senza una accurata conoscenza dei dossier resta nutrita e in alcuni ambienti del populismo imperante l’ignoranza è addirittura esaltata come una virtù. L’ignoranza di taluni politici si basa sulla inconsapevolezza dei propri limiti, su una falsa conoscenza fondata prevalentemente su radicati pregiudizi che portano a conclusioni errate per manifesta incompetenza: in genere, il conto, poi, lo pagano i cittadini. Non a caso un famoso storico anglosassone, constatando l’imperizia di tanti governanti, li invitava a rimediare alle vistose lacune di preparazione con periodici seminari sul senso delle istituzioni e della nostra storia: una volta c’erano perlomeno le scuole di politica promosse dai partiti che aiutavano e informavano, erano di parte ma servivano. Anche il nostro Stefano Franscini, molto tempo prima, già avvertiva il problema e esortava i concittadini a istruirsi perché ciò consente l’esercizio consapevole di diritti e doveri, e poi li sollecitava a fare una doverosa selezione dei candidati alla guida della cosa pubblica sulla base del confronto fra meriti e demeriti: raccomandava di “scartare quelli di scarso peso nella capacità e nei principi”. L’auspicio non ha avuto particolare seguito, e pure oggi i politici di talento non mancano ma non sono predominanti in un modello di democrazia che privilegia la mediocrità.
“Che guaio i politici senza cultura” scriveva Eugenio Scalfari qualche anno fa, e constatava che la mancanza di cultura politica ha pesanti conseguenze: genera un appiattimento sul presente che è un atteggiamento assai comune e ad essere esaltata è la politica della povertà argomentativa, del decisionismo semplificatore che evita di stimolare lo spirito critico del cittadino. Al contrario, la cultura politica è fatta di senso della storia, di competenze e capacità, di un’etica pubblica che concepisce l’attività politica come servizio alla collettività. Grazie a una buona cultura politica il politico acquisisce la consapevolezza della complessità dei problemi che deve affrontare. A questo proposito parliamo appunto della cultura politica quale premessa indispensabile per decodificare il mondo in cui viviamo e scansare le semplificazioni demagogiche e i facili pregiudizi che “non pongono domande e non chiedono verifiche”.
C’è una storiella, dello scrittore David Foster Wallace, che chiarisce il concetto: “Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: ‘Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?’. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: ‘Ma cosa diavolo è l’acqua?’”. Ecco: il politico consapevole, parafrasando Wallace, è colui che si sforza di capire che cosa è l’acqua, come variano i flussi nel tempo, come si muove la corrente e quali sono le soluzioni migliori per eliminare le turbolenze nel rispetto delle esigenze di tutti. “This is water” è il titolo di un libro dello scrittore citato: dovrebbe essere lo slogan da infilare nell’agenda quotidiana di ogni politico per invitarlo giorno dopo giorno a considerare la realtà nelle sue tante sfaccettature e non cadere nelle tentazioni del semplicismo e del pregiudizio che sono il condimento del populismo e della demagogia che – bisogna pur dirlo – contaminano, in misura variabile, tutti i partiti.
Le conseguenze della povertà argomentativa appiattita sul presente diventano pesanti quando si affrontano i veri nodi insoluti della nostra società: come la questione della crescente diseguaglianza sociale e dello sgretolamento del welfare che una certa politica molto in auge riconduce all’invasione degli stranieri che ruberebbero fette di benessere ai cittadini europei. E poi vi è il problema dei problemi, quello dei migranti e dell’immigrazione che la politica, intrisa di pregiudizi e di paure, sta gestendo con un atteggiamento sconcertante. Stiamo ricordando in questi giorni il terribile dramma dell’Olocausto e sono in tanti a ripetere “mai più”, ma intanto un altro spaventoso Olocausto si sta consumando nella più completa indifferenza.
Il Mediterraneo è diventato un mare di morti, un immenso cimitero, di donne e bambini, giovani adulti, ma i politici parlano di muri, di respingimenti, di leggi severe a tutela della nostra identità di comodo: e con cura tracciano il confine fra noi e gli altri. E gli altri, i dannati della terra, sono espropriati della loro umanità, svuotati di sentimenti e aspirazioni. E si fa strada l’idea che il mondo è popolato di tante razze: quella bianca sta sopra, e deve badare a non essere cancellata da quelle che stanno sotto, le razze inferiori. Ciò che sembrava scomparso per sempre rinasce dalle ceneri e alcuni cominciano a pensare che Joseph Arthur de Gobineau e Houston Stewart Chamberlain, i teorici della diseguaglianza delle razze, avessero le loro buone ragioni. Forse, mai come in questo frangente la mancanza di cultura politica lascia libero corso ai pregiudizi fondati sull’ignoranza e sull’ottusità: la semplificazione della realtà spianata con una ruspa e il decisionismo dei politici senza cultura diventano pura irresponsabilità e la loro politica ci sta avviando alla barbarie e ci conduce al peggio. La Dichiarazione sulla razza e sui pregiudizi razziali votata all’unanimità dall’Unesco nel 1978? Cose di altri tempi. Esagero? Forse, ma qualche timore resta. Il filosofo Pier Aldo Rovatti è convinto che siamo sulla via dell’imbarbarimento alimentato quotidianamente dalla sottocultura politica: facile trovare conferme giornaliere e ciò non induce all’ottimismo.
Certo è che forse mai come oggi occorrerebbe che la politica ritrovasse lo spessore della cultura e i politici recuperassero il legame con gli intellettuali: ma la demagogia e il populismo imperano, e gli intellettuali, non tutti per fortuna, tacciono. Un colto interlocutore qualche tempo fa ha replicato asserendo che compito dell’intellettuale è fare bene il proprio lavoro: può darsi, ma può essere un tentativo di giustificazione del disimpegno nei confronti della realtà, di un pavido conformismo che sfocia nell’indifferenza. Andrea Camilleri, a tal proposito, sostiene che una volta c’era l’impegno, poi il non impegno, e ora un terzo livello, l’indifferenza: è grave, perché la funzione dell’intellettuale è di partecipare e dare il suo contributo come cittadino alla vita politica. Appunto: spiegare ai politici che cos’è l’acqua in cui nuotano tutti.