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Panettoni alla ’nduja e poltrone per due

Le tradizioni a volte vengono riempite con qualcosa di troppo, succede ai dolci ma anche a vecchi film ormai entrati a far parte del Natale

In sintesi:
  • Le critiche alle battute di una commedia del 1983 paiono eccessive, non perché non possa invecchiare una certa comicità, ma perché chi critica pare non abbia proprio capito il messaggio del film
  • “Ogni film è figlio del suo tempo”, ha chiosato il regista John Landis. Contestualizzare, in certi casi, ha molto più senso di demonizzare
Una scena del film ‘Una poltrona per due’
(Youtube)
24 dicembre 2024
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Molti di noi, questa sera, in Ticino come in Italia, si sintonizzeranno su Italia1 per vedere ‘Una poltrona per due’. Dal 1997, la commedia con Dan Aykroyd e Eddie Murphy viene riproposta la sera del 24 dicembre. Il film datato 1983, è considerato un classico natalizio al pari del panettone. E come il panettone resiste proprio perché resta perennemente uguale a sé stesso maentre noi cambiamo. Certo, c’è chi tenta la strada dell’innovazione.

Quest’anno, per le vie di Bellinzona, c’era un panettone alla mucillagine di cacao (perché le gocce di cioccolata, il cacao e le fave di cacao non erano abbastanza). Entrando in una nota catena di negozi, tra borse e giacche eccessive tipiche di un marchio d’alta moda, era esposto un panettone (nientemeno che al “vino perpetuo”) al modico prezzo di 75 franchi. Libero panettone in libero Stato, per carità. Ma a volte si esagera. Sul web è in vendita quello con la ’nduja: prezzo variabile dai 19 ai 48 euro, in proporzione forse alla qualità dell’impasto, forse a quella della ’nduja o – più probabilmente – alla nostra voglia di essere fatti fessi.


Ndujattone
Un panettone alla ’nduja

Quest’anno, ‘Una poltrona per due’ (che sull’onda del nostalgismo imperante è tornato anche nei cinema) è stato farcito con una serie di polemiche talmente pretestuose che, nell’articolo più citato in Italia, quello di ‘Vanity Fair’, l’autrice è riuscita nell’acrobatica performance di scrivere, non a un certo punto, non alla fine, ma nella prima riga, le parole con cui disinnesca tutto quel che viene dopo. Nell’incipit si legge infatti che “‘Una poltrona per due’ è portatrice sana di polemiche”. Sottintendendo, quindi, che quelli da curare siamo noi, non il film.

C’è da dire che Vanity Fair non fa niente di più che scopiazzare articoli americani che per dare la patente di “tossicità” al film citano il blackface di Dan Aykroyd, il ruolo subalterno e il seno nudo della prostituta dal cuore d’oro interpretata da Jamie Lee Curtis, certe battute passate di moda e il fatto che la servitù fosse tutta afroamericana. Ma la servitù, spessissimo, ancora oggi, è afroamericana a quelle latitudini. Figuriamoci nel 1983, anno in cui il blackface e certe battute retrograde non venivano percepite come tali. Una risposta c’è, e l’ha data il regista John Landis: “Ogni film è figlio del suo tempo”. Contestualizzarlo, quindi, salvando ciò che c’è di buono, ha molto più senso di demonizzarlo tout court.


Youtube
Una delle scene iniziali del film

Tra le critiche più assurde c’è quella ai personaggi dei due miliardari razzisti e dal cuore di pietra, dipinti nel film come due miliardari razzisti col cuore di pietra. C’è un altro modo di descrivere meglio un razzista che fargli dire e fare qualcosa di razzista? Inoltre i due finiscono male, quindi si beccano anche una punizione per essere quel che sono.

Dov’è quindi lo scandalo? E qui torniamo al “portatore sano”. Il titolo originale del film è ‘Trading Places’, che (oltre a essere un gioco di parole sulla Borsa che fa da sfondo alla storia) vuol dire “scambio di ruoli”. Pur essendo una commedia leggera, il film fa riflettere sul ruolo del caso nella nostra vita, e su quanto basti un colpo di fortuna o uno sgambetto per farci completamente deviare da quella che diamo per scontata sia la nostra traiettoria. ‘Una poltrona per due’, al netto di qualche battuta invecchiata male, ci ricorda che non è l’abito a fare il monaco. Che nella vita tutto può cambiare in fretta. E, soprattutto, che “l’altro”, chiunque sia (noi compresi), troppo spesso è posto sotto giudizio per un problema più di chi lo giudica che suo.