Il bene collettivo ‘salute pubblica’ in mano ai privati viene finanziato attraverso un’imposizione regressiva: urge un cambio di paradigma
Il ‘Diario della guerra al maiale’ è uno dei romanzi più bizzarri e allo stesso tempo meritevoli dello scrittore Adolfo Bioy Casares, grande amico e collaboratore di Jorge Luis Borges. Pubblicato verso la fine degli anni Sessanta, il testo racconta di una distopica “caccia ai vecchi” portata avanti dai giovani abitanti di una città, i quali associano appunto gli anziani alla figura simbolica dei suini. Lanciati in questa assurda crociata, i giovani si autogiustificano affermando che “la morte non arriva più ai cinquanta ma agli ottant’anni… e domani arriverà ai cento. La dittatura del proletariato ha ceduto il passo alla dittatura della vecchiaia”.
A una conclusione del genere – con tutti i dovuti distinguo – ci sarebbe il rischio di giungere pure oggi, spinti da una lettura superficiale del problema piuttosto acuto dei costanti aumenti dei premi di cassa malati. Perché la spiegazione ricorrente dell’esplosione dei costi della sanità quale motivo principale e quasi esclusivo che determina l’impennata dei premi a carico degli assicurati pare andare proprio in questa direzione: l’invecchiamento della popolazione, l’allungamento della speranza di vita, un’eccessiva offerta di prestazioni che induce un altrettanto eccessivo ricorso a visite e trattamenti da parte dei pazienti-consumatori… Sono tutti fattori che ovviamente esercitano una certa pressione sul sistema sanitario così come concepito e che, allo stesso tempo, portano a voler individuare dei “colpevoli”: gli anziani, i medici, i fisioterapisti, gli psicologi.
In realtà la questione risulta essere parecchio complessa e ci potrebbe portare a dover guardare oltre il dito pure la luna. In un recente intervento uscito sul blog ‘naufraghi.ch’, il granconsigliere Giuseppe Sergi afferma che “quella dell’esplosione dei costi è una narrazione che va rifiutata, perché tutta tesa a giustificare l’aumento dei premi”. Grafici alla mano, Sergi dimostra come nell’ultimo decennio il rapporto tra spesa sanitaria e Pil sia rimasto perlopiù stabile. E come tale rapporto, in un paragone con altre economie avanzate (Stati Uniti, Germania, Francia) veda la Svizzera completamente in linea.
Ergo, il vero nodo sta alla radice: il bene collettivo “salute pubblica” lasciato in mano ai privati viene finanziato attraverso un’imposizione regressiva che prevede dei premi trasversali che “colpiscono” la popolazione in maniera inversamente proporzionale (minore è il reddito, maggiore è il peso dei premi sul budget familiare). È vero, ci sono dei correttivi: i sussidi. Ma questi intervengono a posteriori ed escludono dalla cerchia dei beneficiari una buona fascia della cittadinanza, cioè il ceto medio. Inoltre lo stato di degrado avanzato del modello LAMal presuppone una sempre maggior partecipazione pubblica in materia di sussidi, andando così ad appesantire le finanze di Confederazione e Cantoni. Un mucchio di cerotti, insomma. Come le misure che la politica federale partorisce con una certa ricorrenza per cercare di tamponare l’emorragia (ovvero, porre un freno ai costi); misure spesso sabotate dall’interno di un sistema in cui le lobby delle varie corporazioni tendono a prevalere.
Intrappolati in un autentico circolo vizioso, sarebbe forse l’ora di aprire un serio dibattito – nel frattempo perlomeno cantonale – che punti a un cambio di paradigma in tempi piuttosto brevi. In ogni caso prima che certi estremisti che non ci mancano, obnubilati da una sorta di euforia, inizino (continuino?) ad addossare stigmi a chicchessia.