Tutte le iniziative belliche intraprese da Netanyahu sembrano destinate a ridursi a ‘vittorie di Pirro’. Mentre Israele perde simpatie e credibilità
Vincere una battaglia, insegna la Storia, non significa necessariamente vincere la guerra. Nel raccontare la vittoria di Pirro, re dell’Epiro, contro i Romani nella battaglia di Ascoli (III secolo a.C) lo storico greco Plutarco indaga nel campo degli sconfitti rivelando che “come una fontana che scorresse fuori dalla città, il campo romano veniva riempito rapidamente di uomini freschi, per niente abbattuti dalle perdite sostenute, ma dalla loro stessa rabbia capaci di continuare la guerra”.
Le iniziative belliche a tutto campo di Benjamin Netanyahu sembrano destinate a ridursi a una serie di “vittorie di Pirro”. La guerra totale lascerà un gigantesco campo di macerie, ma non potrà portare alla pace; sotto un sole sempre più nero appare già da tempo un panorama di desolazione e morte. I miliziani sciiti libanesi di Hezbollah hanno subìto pesanti perdite ma anche se il truce sponsor iraniano si tiene saggiamente in disparte, sembrano in grado di resistere e contrattaccare sistematicamente con lanci di missili impedendo a centinaia di migliaia di sfollati israeliani di far rientro nelle loro case.
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Netanyahu gioca a fare il generale in tv
Bombe chiamano bombe, la morte alimenta la vocazione al martirio dei fanatici di Dio. Con una “exit strategy” del tutto inesistente, con Gaza allo stremo e un isolamento internazionale crescente, il premier (in privato) può certamente vantarsi della strage di miliziani e civili compiuta in Libano tramite cercapersone e walkie-talkie. Successo dal profilo hi-tech, trionfo dello spionaggio informatico, spettacolare riscatto di un Mossad umiliato il 7 ottobre, ma che costringe il presidente israeliano a mentire spudoratamente (“non siamo stati noi”) e che non mancherà di infondere ulteriore veleno nei confronti del Paese anche da parte di quei (tanti) libanesi ostili a Hezbollah, e che si ritrovano nuovamente a dover convivere col terrore, a fare i conti quotidiani con una pioggia di bombe.
“Netanyahu difende la propria coalizione non la nazione” denuncia l’ex ministro Benny Gantz. Molti israeliani oramai non vedono l’ora di emigrare. L’anima del Paese è a pezzi, confessa lo scrittore Etgar Keret: “I soldati israeliani si ritraggono mentre bruciano il Corano, agitano in aria in segno di scherno gli indumenti intimi delle donne di Gaza”. Nei primi quattro mesi di guerra, a Gaza sono stati uccisi più bambini che in quattro anni in tutti i conflitti armati nel mondo, sottolinea lo storico Vincent Lemire in base a un rapporto Onu. Raccapricciante anche il record mondiale di giornalisti uccisi (130). Gaza off limits per la stampa, mentre violando gli accordi di Oslo, si chiude Al Jazeera a Ramallah. Sfuma l’immagine iconica di Moshe Dayan, eroe della Guerra dei Sei giorni: Tsahal si macchia regolarmente di abusi e tortura.
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Murale nelle strade di Gaza
Lo Stato ebraico è sotto inchiesta per genocidio mentre nei confronti di suoi due dirigenti si attende un mandato di cattura internazionale. La maggioranza dei giovani ebrei americani ha ora un’opinione negativa di Israele, scrive lo storico Ilan Pappé. Il capitale di empatia e solidarietà creato dalla carneficina del 7 ottobre è stato bruciato dai tanti altri 7 ottobre inflitti per ritorsione ai palestinesi. In due settimane, annota il giornalista Gad Lerner, Israele è passato dalla parte della ragione consegnatale dai terroristi di Hamas, a quella del torto. La tempesta perfetta di bombe, “stupidità e messianismo” (Keret) ha portato a questo immane scempio.