laR+ IL COMMENTO

L’implorazione che trafigge come una lama: ‘Portami via’

Alcuni giorni fa il regime talebano ha emanato il codice capestro per le donne. Uno stillicidio di divieti, orwelliano e grottesco se non fosse reale

In sintesi:
  • Punito severamente il solo sguardo diretto a un uomo
  • Chissà perché tanta indifferenza, nessun sit-in negli atenei?
Si spegne la vita di 20 milioni di donne
(Keystone)
12 settembre 2024
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A un tratto dalla gola le esce solo silenzio, ma è un gemito, una voce, un grido, una sofferenza che cova dentro, atroce, profonda come un tumore. La sentiamo regolarmente Laleh, ci scriviamo, ogni tanto ci scambiamo anche qualche parola al telefono. Lei impara l’inglese discretamente su YouTube, la sua voce è giovane, cristallina, noi spiaccichiamo per rispetto anche qualche frase in dari, il persiano afghano. Le cose vanno male, malissimo. Che dire? Quasi una litania, lunga tre anni. Certo, ne siamo al corrente. Per voi ragazze è calato il buio. Ma che fare? Un macigno incombe sulle nostre conversazioni: al suo dolore, alle suppliche risponde la nostra impotenza. Prima che il nodo in gola non spenga la sua voce, l’implorazione che trafigge come una lama: “Portami via”, poi solo un per favore, “loftan, please” che si stempera nella lontana Jalalabad, risucchiato dall’angoscia.

Alcuni giorni or sono, il regime talebano ha emanato, con tanto di firma della guida suprema Hibatullah Akhundzada, il codice capestro per le donne: al divieto di mostrare volto e corpo in pubblico, si è aggiunto quello di cantare, recitare e pure di parlare davanti a persone che non appartengono alla ristretta cerchia familiare. Lo stillicidio di divieti, orwelliano e grottesco se non fosse reale, comprende scuole (salvo le elementari), spostamenti, lavoro, parchi pubblici, musica, divertimenti. Punito severamente il solo sguardo diretto a un uomo. La morte sociale per le donne invisibili.

“La più grande prigione del mondo”: l’epiteto coniato per la striscia di Gaza, sarebbe in realtà da attribuire all’Afghanistan, carcere grande due volte l’Italia in cui, nella quasi indifferenza mondiale, si spegne la vita di 20 milioni di donne. Chissà perché tanta indifferenza, nessun sit-in negli atenei? Non c’è più l’orco americano, il cui fantasma faceva scrivere a improvvisati “commentatori” anche locali (sinistra.ch) che con la fine dell’imperialismo celebreremo la liberazione delle donne e il trionfo della laicità. Forse un aforisma stanato in una vecchia copia di un manuale del buon militante delle celebri edizioni di Pechino, recuperata in un mercatino dell’usato. O forse solo la scempiaggine di un balordo. Un altro commentatore, sprovveduto quanto spavaldo, su un altro portale regionale, denunciava gli allarmismi della propaganda occidentale. Tre anni dopo, la scomoda verità: gli anni in cui le donne hanno ritrovato un po’ di respiro sono proprio quelli dei due imperialismi, sovietico dapprima e soprattutto americano in seguito. L’islamismo in salsa talebana, scrive il grande studioso Michael Barry, è una forma estrema di fascismo: superiorità di un credo (islam), di un’etnia (Pashtun), di una casta (ashraf, i proprietari terrieri), di un sesso.

“Le pareva di essere una morta vivente che si svegliava sottoterra in una bara, ma sopra nessuno se ne accorgeva... sopra gli uomini camminavano sulla terra con passo leggero”: ci tornano in mente queste parole di Stefan Zweig (“Storia di una caduta”) quando dopo al suo silenzio facciamo seguire un sussurrato “mi spiace” e interrompiamo la comunicazione. La ribellione letteraria delle donne afghane è tradizionalmente confinata in brevissimi poemi, chiamati landai. In uno di questi leggiamo: “Urlo ma non rispondi, un giorno mi cercherai ma non ci sarò più”; in un altro: “Come un tulipano nel deserto, muoio prima di schiudermi”. Li avevamo scoperti un po’ per caso, in un’antologia. Oggi scopriamo che Laleh in persiano significa tulipano.