La difficile transizione non riguarda soltanto il vettore (carta o digitale) ma il modo di concepire il proprio ruolo all’interno della società
Dopo i prologhi e le note alle varie edizioni, Marx apre il primo capitolo della prima sezione del primo libro del ‘Capitale’ affermando che “la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci”. L’informazione, ricchezza della nostra democrazia, sembra infatti non fare eccezione a questo presupposto della teoria del valore marxiana. Ce lo conferma la decisione del principale gruppo editoriale svizzero Tamedia, comunicata nei giorni scorsi, di sopprimere 290 impieghi. Duecento posti di lavoro in meno riconducibili alla chiusura di due tipografie – a Zurigo e Bussigny –, con tutte le attività di stampa di Tx Group che verranno concentrate in un unico centro tipografico a Berna. Gli altri novanta impieghi che scompariranno riguardano invece le redazioni, conseguenza della scelta di Tamedia di ridimensionare la presenza digitale delle proprie testate.
Per provare a comprendere la portata dei tagli annunciati dalla società editrice guidata da Pietro Supino bisogna però, per forza di cose, fare due conti. Per quanto concerne la chiusura dei due centri di stampa, la responsabile della comunicazione del gruppo ha ammesso che attualmente le tipografie operano con un elevato grado di capacità produttiva inutilizzata (tra il 50 e il 70 per cento). Ciò vuol dire che, dato un valore ‘x’ del macchinario presente all’interno di ogni tipografia e una tiratura dei giornali in costante diminuzione (fenomeno irreversibile, viste le nuove modalità di fruizione delle notizie da parte dell’utenza), ci si ritrova in una situazione in cui il costo del capitale fisso – le moderne rotative e annesse catene di montaggio – che viene trasferito a ogni singola copia di giornale aumenta in maniera proporzionale alla riduzione del numero complessivo di esemplari stampati. Tutto questo non fa che rendere l’attività di stampa scarsamente redditizia, se non addirittura parecchio onerosa. Risiede proprio qui il motivo per cui, in effetti, spiegavano già anni fa i vertici di Tx Group durante un incontro, la sfida della sostenibilità nel settore mediatico è molto più ardua per quegli editori che hanno le rotative “in casa”.
Che poi qualche osservatore intraveda nella soppressione di impieghi in ambito redazionale i segnali di una sorta di “assedio commerciale e culturale” e non quelli di una complessa – e un po’ brutale – burrasca schumpeteriana di distruzione creativa in cui il “vecchio” (modo di intendere il giornalismo) perde terreno a scapito del “nuovo”, potrebbe darci una qualche indicazione di chi sta dove.
Di fatto la difficile transizione che i media tradizionali stanno affrontando da alcuni anni a questa parte – transizione che non riguarda soltanto il vettore dell’informazione (carta o digitale) ma il modo di concepire il nostro ruolo all’interno della società – richiede sicuramente un maggiore supporto da parte della politica, qualora questa intenda riconoscere all’attività dei media il valore di “servizio pubblico” (gestito da privati o dalla Ssr, poco cambia). Sarebbe in questo senso un peccato se una buona parte del sostegno indiretto al vaglio del parlamento – 30 milioni di franchi – finisse per diventare un aiuto esclusivo ai grandi editori, tramite la sovvenzione della distribuzione mattutina dei quotidiani svolta soltanto da questi.
In ogni caso il compito più delicato spetta a ogni testata: quello di contribuire alla propria sopravvivenza attraverso un lavoro serio, indipendente, coraggioso. Tutte qualità irrinunciabili del lavoro giornalistico, tutte merci sempre più rare.