Habitué di assassinii mirati in terra straniera, Bibi non vuole trattative. Ambisce a estendere il conflitto, perlomeno fino alle elezioni americane
“Come puoi avere successo in una mediazione quando una parte assassina il negoziatore dell’altra?”. Domanda retorica quella del capo del governo del Qatar, risposta ovvia: Netanyahu non vuole trattative. Ambisce a estendere il conflitto, perlomeno fino alle elezioni americane. Non è certamente un caso che Ismail Haniyeh sia stato ucciso a Teheran e non a Doha dove vive o ad Ankara, dove si è recentemente recato. Il premier israeliano è un habitué di assassinii mirati in terra straniera: risale al 1997 uno dei primi tentativi, fallito, l’avvelenamento ad Amman del capo di Hamas Khaled Meshal.
Netanyahu e Haniyeh, mandante e vittima, in una sorta di equivalenza dell’orrore, sono accomunati dall’accusa mossa dalla procura dell’Aia di crimini di guerra e contro l’umanità. Si attende l’incriminazione sia per Netanyahu e due suoi ministri, sia per i due esponenti di Hamas rimasti in vita. A pochi giorni dall’uccisione a Beirut di un leader di Hezbollah, il secondo assassinio eccellente rende ancor più evidente che Netanyahu non desideri alcuna “de-escalation” del conflitto e che la sorte degli ostaggi rimasti in vita non costituisca una sua priorità. Haniyeh, capo mediatore, cresciuto nei campi profughi di Gaza era originario di Ashkelon, città oggi israeliana ma che il piano di partizione Onu aveva assegnato agli arabi. Israele aveva ucciso tre suoi figli e quattro nipoti. Il suo risentimento era quello di gran parte della popolazione della Striscia, rifugiata, senza patria e senza futuro. Lui esprimeva posizioni sostanzialmente moderate. Ma ha plaudito al 7 ottobre, ed è stato l’artefice dell’abbraccio tra il fondamentalismo sunnita di Hamas e quello sciita del governo iraniano.
Le guerre condotte da Israele (Hamas, Hezbollah, Houti nello Yemen) mirano a un obiettivo maggiore: l’Iran. Il che non spiace necessariamente a diversi Paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita. Missione quasi dichiarata: distruggere il regime di Teheran. Negli ultimi anni, cinque scienziati nucleari iraniani sono stati eliminati dal Mossad e oggi l’inevitabile rappresaglia (diretta o indiretta via Libano, Siria, Yemen) di un Iran umiliato costituisce l’esca con cui Tel Aviv potrà poi giustificare la spirale bellica. Incendiare la regione: è la strategia di un governo radicalizzato che rimprovera a Hamas di voler cancellare Israele, ma che al tempo stesso non vuole riconoscere il diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato. Come dire: sì al mio diritto di esistere, no al tuo. Un governo non dissimile dai suoi nemici nel calpestare la legge internazionale. Alla strage del 7 ottobre, ha replicato infliggendo tanti altri 7 ottobre alla popolazione di Gaza, trasformando scuole, ospedali, abitazioni in una landa di rovine.
Oggi Netanyahu può rivendicare un successo tattico e un’accresciuta popolarità domestica. Ha vinto una battaglia politica. Diversi commentatori rispolverano, ma con molte forzature, il ricordo della dottrina Golda Meir dopo il massacro alle olimpiadi di Monaco nel 1972: uccidere uno a uno tutti i colpevoli. Nel frattempo però vi è stata la fine della guerra fredda, la speranza di Oslo, il riconoscimento di Israele da parte dei palestinesi. Oggi mentre qualche fievole luce negoziale sembra delinearsi in Ucraina, sul Medio Oriente si allungano le tenebre di un’ennesima devastante guerra. Sarà molto difficile disinnescarla: perché lì a confrontarsi sono opposti estremismi, fondamentalismi, politici, religiosi, identitari.