L’Ue non può seppellire millenni sotto le macerie della propria disgregazione, sotto i colpi dei fascismi nazionali e dell’inerzia delle sinistre
Sono passati pochi giorni dalla rielezione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea, quell’organizzazione internazionale che si vuole unitaria e mette insieme 27 voci, sempre più dissonanti fra loro, per dire in coro che un’Europa ancora esiste, nonostante tutto. Ma a Bruxelles come a Strasburgo l’idea (o l’ideale) d’Europa ha finito per riassumersi maggiormente nelle distinzioni che nei tratti realmente unitari. Tratti che, da un certo punto di vista, potrebbero ridursi a due elementi chiave: una proclamata fedeltà ai valori della democrazia liberale (e all’economia liberista) e una ribadita fiducia in un atlantismo tutto difensivo, sotto il cappello della Nato. Insomma, ancora una volta per l’Europa “Dio salvi l’America”, perché solo da lì può venirci un nuovo impulso “identitario” nell’essere espressione di “democrazia occidentale”.
Poi, alla luce delle più recenti vicende statunitensi, dalla volgare campagna del candidato più corrotto e indagato della storia, all’abbandono del balbuziente presidente in carica, ci si dovrebbe pur domandare se davvero solo a quella realtà politica e culturale (e soprattutto economica) l’Europa possa e debba forzatamente far riferimento per trovare un proprio ruolo non ancillare riguardo alle grandi questioni globali, a cominciare dai conflitti in corso (anche in Europa), al tema migratorio, alla questione climatica. Ma così è gestita dall’ineffabile e inamidata signora Von der Leyen (guarda caso eletta e contemporaneamente sotto inchiesta per sue ipotetiche aderenze in casa Pfizer) e così appare in innumerevoli sue manifestazioni contraddittorie, dalle iniziative diplomatiche di Orbán a Mosca ai litigi da cortile in via della Scrofa, a Roma, fra i leader della coalizione governativa italiana. È un’Unione che vive solo sulla carta sin dal ’92 con il Trattato fondativo di Maastricht, mentre i Balcani e le ex Repubbliche sovietiche già cominciavano a riportare a galla tragiche rivendicazioni territoriali di stampo nazionalista che stanno oggi paralizzando ogni disegno di sviluppo ideale di un necessario nuovo statuto europeo.
L’Europa è così sempre più contraddistinta dall’assecondare anzitutto le logiche del mercato e gli appetiti di stuoli di lobbisti, mai come oggi presenti a Strasburgo. Ce ne parla, accreditato come pochi altri, un grande giornalista, Paolo Rumiz, in un accorato e impietoso pamphlet appena pubblicato da Feltrinelli con il titolo ‘Verranno di notte’. Da triestino, nato e cresciuto su un confine che ha visto scorrere, nei secoli, fiumi di sangue nel rintracciare e ritracciare frontiere vere e immaginarie, Rumiz prefigura, in un suo personale “cahier de doléances” fatto di voci e testimonianze raccolte in vari Paesi del continente, uno scenario che sta per polverizzare ogni principio fondativo dell’Unione. Ricordando le parole dello scomparso ex presidente del parlamento europeo David Sassoli, secondo il quale “non può esserci nessun Next Generation plan se prima non c’è un European Dream”, con Rumiz non possiamo che assistere tristemente “a quanto si consuma oggi con il via libera al peggio: pesticidi, gasolio, riarmo, sospensione del Trattato di Schengen, ritorno delle frontiere”.
Ma l’Europa non è, e non può essere questa; non può seppellire millenni di storia e cultura sotto le macerie della propria disgregazione, sotto i colpi dei fascismi nazionali e dell’inerzia di chi dovrebbe opporsi a queste derive. Di fronte allo spettro della barbarie, occorre davvero un nuovo “sogno europeo”. Senza aspettare che arrivi dall’America.