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La nuova sindrome dell’ortica

Pur mangiando mele ogni settimana, molti giovani non sanno distinguere un melo da un nocciolo. Ma riconoscono i loghi di molti marchi

In sintesi:
  • Ignorando l’importanza vitale delle piante per l’ambiente, la salute, l’economia si rischia di non fare abbastanza per conservarli, per allacciare utili alleanze, soprattutto davanti alle sfide ambientali e climatiche che ci travolgono qui, nelle Alpi
  • Ben vengano allora orti cittadini, lezioni in natura e tutti quei progetti che permettono ai giovani di radicarsi nel loro territorio, senza farsi prendere da eco ansie che li paralizzano e ibernano alcuni di loro in un bozzolo di pensieri tossici e di inattività casalinga
(Depositphotos)
10 luglio 2024
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Pur mangiando mele ogni settimana, molti non sanno distinguere un melo da un nocciolo. Da quando videogiochi e social hanno soppiantato le capanne nel verde, la distanza tra uomini e vegetali è ancora più abissale. Un disinteresse emerge in tutta la sua drammaticità negli adolescenti. Basta fare un test: su dieci loghi di marchi, da Apple ad Amazon, ne riconoscono almeno nove. Mentre su dieci piante indigene, se va bene ne azzeccano tre. Alla Scuola Alpina di Olivone, dove transitano 2’500 studenti l’anno per immersioni verdi, tra escursioni e laboratori, arrivano 15enni che non hanno mai avuto a che fare con un’ortica. Non sanno neppure che è urticante. Eppure i suoi germogli sono ottimi per minestre e frittate; le foglie essiccate possono essere usate per infusi depurativi, antireumatici. Tutte nozioni che non servono per sopravvivere nella giungla urbana.

Il punto non è diventare tutti fitoterapeuti o essere nostalgici, ma sapere almeno l’Abc dell’ecosistema vegetale che ci nutre, ci veste, ci fornisce medicamenti, l’aria che respiriamo attraverso la fotosintesi. In poche parole: uno dei nostri principali sistemi di sostentamento. Più importante del telefonino. Ignorando l’importanza vitale delle piante per l’ambiente, la salute, l’economia si rischia di non fare abbastanza per conservarli e per allacciare utili alleanze, soprattutto davanti alle sfide ambientali e climatiche che ci travolgono qui, nelle Alpi, una fra le aree naturali più pregiate, ricca di biodiversità e serbatoio d’acqua per tutta l’Europa.

Questa sindrome, ribattezzata cecità vegetale (‘plant blindness’) – un termine introdotto da Elisabeth Schussler e James Wandersee nel 1998 – viene da un malfunzionamento cognitivo che ci porta a sottostimare le piante. Pur essendo circondati da innumerevoli specie, vediamo solo un generico verde. Interessante la tesi del neurobiologo vegetale di fama mondiale Stefano Mancuso. Spiega che nel corso dell’evoluzione, le piante non sono mai state percepite come un pericolo, tale da mettere in discussione la sopravvivenza dell’uomo. Per questo motivo, il cervello umano ha imparato a non guardarle. Eppure rappresentano il 99% della massa sulla terra e sono capaci di trovare soluzioni ai più disparati problemi di sopravvivenza. Secondo gli esperti, nei vegetali è racchiuso il segreto della sopravvivenza degli uomini e del nostro pianeta.

Ben vengano allora orti cittadini, lezioni in natura e tutti quei progetti che permettono ai giovani di radicarsi nel loro territorio, senza farsi prendere da ecoansie che li paralizzano, con alcuni di loro che si ibernano in un bozzolo di pensieri tossici e di inattività casalinga. Malesseri purtroppo in crescita tra i giovani (dagli 11 ai 15 anni) ticinesi, come ha illustrato a fine giugno il Dipartimento sanità e socialità: nel 2010 a sentirsi ansioso (una volta a settimana) era il 22% e triste il 31% dei ragazzi, nel 2022 ansia (il 55%) e tristezza (il 50%) contagiavano metà dei giovani interpellati. Quando la mente va fuori giro, meglio spostarla su cose concrete, come affondare le mani nell’orto o aiutare qualche associazione, anche green. Tante piccole azioni fanno il cambiamento e ci rendono protagonisti, non spettatori impotenti di un degrado ambientale. Potrebbe essere un tema davvero utile per la prossima agenda scolastica.

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