Il trionfo del Labour di Keir Starmer nel Regno Unito è destinato a rilanciare la riflessione sull’eterno dilemma tra moderazione e massimalismo
Sono bastati cinque anni per rivoltare come un guanto il panorama politico britannico. Nel 2019 la fortuna elettorale arrideva al clownesco Boris Johnson: maggioranza assoluta al parlamento per i Tory e disco verde per gestire con baldanza il Paese e il divorzio dall’Europa. Sotto la guida di Jeremy Corbyn, gli avversari del Labour incassavano il peggior risultato dagli anni 30 del secolo scorso. Oggi i ruoli si sono dunque ribaltati: trionfo della sinistra che ottiene il 60% dei seggi, storico smacco del partito conservatore, che porta a Westminster il minor numero di deputati dalla sua fondazione nel lontanissimo 1834.
Da tempo la volubilità dell’elettorato non è una sorpresa: più che un mutamento ideologico e politico della popolazione, costituisce verosimilmente l’espressione di una profonda diffusa frustrazione che penalizza chi è al governo. Dopo 14 anni di Tory, il pendolo si riposiziona così a sinistra, dove l’aveva lasciato Gordon Brown.
La vittoria del 61enne Keir Starmer era scontata, tanto da rendere senza storia la campagna elettorale. Il degrado del welfare, l’aumento del costo della vita, le file che si allungano interminabili davanti alle banche del cibo, il collasso del sistema sanitario, la crisi di quello scolastico, l’esplosione del debito pubblico hanno da tempo segnato il destino di Rishi Sunak, ultimo nell’ordine di successione al preventivato fallimento conservatore (la strada era stata spianata da Theresa May e Boris Johnson per raggiungere l’acme con la velleitaria Liz Truss). Il successo della sinistra potrebbe essere il semplice automatico risultato speculare dell’insuccesso della destra.
Il neonominato premier Starmer, seppur privo di carisma (“Keir il molle” secondo i suoi detrattori) ha comunque convinto riportando il Labour su posizioni socialdemocratiche, ‘rottamando’ Corbyn, marginalizzando il radicalismo e rendendo il partito più appetibile per l’elettorato moderato. Un ‘ritorno al futuro’ ma sotto la regia di Tony Blair. Il programma di Starmer è di chiara impronta ‘liberal’: il Labour si presenta senza timore come il partito della creazione di ricchezza e delle imprese, auspica rigore budgetario, maggior controllo sull’immigrazione, non propone aumenti dell’imposizione fiscale ma rafforzerà lo Stato sociale e il settore pubblico. Classica irrealizzabile quadratura del cerchio? Vedremo.
Intanto la soluzione proposta sembra realizzabile: passa attraverso un aumento dell’Iva sulle scuole private, la lotta all’evasione fiscale, una pesante tassa imposta alle compagnie di idrocarburi. La Brexit non è al momento rimessa in discussione, ma l’obiettivo dichiarato del riavvicinamento all’Europa riporta finalmente un po’ di ossigeno a Bruxelles. Inalterata la politica estera nei confronti di Ucraina e Israele (malgrado un timido impegno a riconoscere a tempo debito uno Stato palestinese). Si prevede meno enfasi su questioni che l’elettorato considera del tutto marginali ma che hanno lacerato il partito, come quella dei transgender.
In un’Europa sempre più a destra, la valanga laburista porterà certamente a rilanciare la riflessione sull’eterno dilemma tra moderazione e massimalismo tra i ranghi dell’opposizione. La lezione inglese per la sinistra europea oggi è chiara, anche se la conferma che quella socialdemocratica sia la scelta migliore la si potrà misurare solo più tardi, quando a parlare saranno i fatti.