laR+ IL COMMENTO

La mente e il paracadute

Di disprezzo in disprezzo per la cultura si arriva a un livello di linguaggio da reflusso esofageo che trascina tutto e tutti verso un’inevitabile deriva

In sintesi:
  • Di questi tempi, con l’aria che tira, per le sorti della cultura siamo al redde rationem
  • Nella pratica politica odierna la ‘cultura’ non è più un requisito necessario
Funzionano solo se aperti
(Keystone)
4 luglio 2024
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Càpita, a volte, che nel dibattito pubblico (o in quel che ne rimane) si finisca anche per parlare di “cultura”, ben sapendo che poi, nelle nostre lande desolate, la “c” vien presto sostituita con la “k”, tanto per passare subito a definirla uno strumento estraneo, più o meno perverso di indottrinamento politico, come fosse un pericoloso ordigno in mano a una scellerata ed esecrabile élite di “gauche caviar” composta da privilegiati nullafacenti che vivono, per lo più, sulle spalle del contribuente.

Di questi tempi, con l’aria che tira, per le sorti della cultura siamo al “redde rationem”: tradotta automaticamente in merce, deve per lo più dare un immediato beneficio economico, deve insomma star dentro le leggi del mercato, che ne determinano il valore, l’utilità o l’inutilità, che spesso e volentieri la fanno rapidamente diventare un “lusso” che non ci si può permettere. E non si tratta solo della pratica o diffusione di una cultura definita “alta”, di settore, di “nicchia” come stanno diventando gli ambiti librari, teatrali, cinematografici, espositivi, ma anche quella che, fino a pochi anni o decenni fa, veniva intesa come strumento di formazione, soprattutto per chi poi ambisse a posizioni pubbliche di rilievo, di rappresentatività e di rappresentanza.

Quella che si definiva, una volta, “preparazione culturale”, che attraverso lo studio permetteva di acquisire “solide basi” per provare a leggere il mondo, seguire o animare un dibattito, sostenere un confronto di idee consisteva nell’acquisizione di strumenti argomentativi che tenessero conto della complessità di cui è fatto un mondo che si vuole “globale”, ricco di differenze per nulla facili da distinguere e da far convivere. Del resto è questo il contesto cui è chiamata a intervenire la nostra “classe dirigente”.

Nella pratica politica odierna, da noi come intorno a noi, la “cultura” non è più un requisito necessario, è al massimo un orpello buono per qualche citazione ad hoc utile a far capire che chi parla è “uno che ha studiato”, ma che poi sa subito tornare a esprimersi come mangia, sollecitando e solleticando preferibilmente le busecche più che l’intelligenza. Se poi, con assoluta disinvoltura, dice sesquipedali sciocchezze, com’è capitato ancora recentemente (per fare solo un esempio) al ministro della cultura italiano Sangiuliano, che non sa mettere in ordine cronologico Cristoforo Colombo e Galileo, che sarà mai, può capitare. Certo, si dirà, ma a un ministro proprio della cultura magari anche no. D’accordo, ma la questione è ben più grave e preoccupante, perché non concerne solo e semplicemente il fatto che a dirigere la politica culturale di un Paese (o una “Nazione”) ci andrebbe una persona di cultura; il fatto è che la politica stessa, in ogni suo ambito di competenza e a cominciare dal suo linguaggio attuale, esigerebbe molta più cultura, che significa, appunto, ricchezza argomentativa.

La comunicazione sociale, in cui si inserisce ogni dibattito politico, ha progressivamente eroso fino ad annullarla qualsiasi pretesa di “approfondimento”, di sguardo “in prospettiva” ed è così gestita in termini “social” solo ed esclusivamente a suon di parole d’ordine e frasi ad effetto. È il trionfo del cosiddetto “populismo”, nelle sue diverse declinazioni, più o meno rozze, ma tutte perentorie. Chi eccepisce, sottilizza, distingue, chiede magari chiarimenti, propone un’alternativa, è tendenzialmente espunto dal dibattito, diventa una sorta di agente “infiltrato” di quel che si fa diventare (con un’acrobazia dialettica ingegnosa, tutta da studiare) un presunto pensiero mainstream, ovviamente di sinistra, che, in sintesi, gira e rigira, consente di mantenere floridamente la casta privilegiata dei dipendenti pubblici togliendo soldi dalle tasche dell’inerme cittadino contribuente.

E come viene fatta passare questa logica, questa narrazione? Con un linguaggio spesso volgare, involuto, privo di basi culturali impugnato, senza “competenze specifiche”, da miriadi di scriventi con la gastrite dentro il contesto dei “social” e trasferito, paro paro, nei dibattiti, alla radio, alla televisione, sui giornali, da politici che “parlano alla gente”: tutto il resto sono “cazzate”, aggiungerebbe un nostro raffinato consigliere di Stato.

E così, di disprezzo in disprezzo per la cultura (anche quella scientifica, di chi dice, per esempio, da anni, che siamo dentro una gravissima emergenza climatica) si arriva a un livello di linguaggio da reflusso esofageo che trascina tutto e tutti verso un’inevitabile deriva, che finisce per inghiottire anche chi ha cercato, come suo solito, il domenicale “colpo ad effetto” sciorinando il proprio dileggiante repertorio di negazonismo ecologico fino a doversi “scusare”, accorgendosi che le circostanze stavano dimostrando, tristemente, quanto la stesse facendo fuori dal vaso.

Carlo Silini, in un suo recente editoriale su ‘Azione’ ha parlato opportunamente di “Incultura al potere”, mettendo giustamente l’accento sul fatto che a contare, oggi, sono ormai solo le idee che, immerse in rabbia e senso di frustrazione, rendono in termini politici ed economici, a favore di una certa politica legata a una certa idea di economia, quella imperante nel nostro mondo globalizzato.

Fra paura e chiusura, l’attuale linguaggio del potere politico coltiva una società sotto assedio permanente, così facile da controllare, così pronta a ripetere all’infinito quel che si vuole che dica per poi affermare che è la “gente che lo vuole”; che evita, come fosse una malattia, ogni forma di cultura che produca dubbi, che sappia farci dire, per citare Albert Einstein, che “la mente è come il paracadute: funziona solo se si apre”.